Tra guerre di posizione sui simboli, dibattiti infuocati sui media e provvedimenti reali impopolari si sta chiudendo un 2011 che vede le organizzazioni sindacali sul piede di guerra, con agitazioni sociali che sommano questioni aperte da troppo tempo (un contratto nazionale dei trasporti pubblici non rinnovato da 3 anni, 180 vertenze aperte al Ministero sull’occupazione, per stare solo sui titoli principali), accanto al nuovo scenario di “mancate relazioni concertative”, inaugurato dal Premier e dal ministro Fornero.
Sul capitolo pensioni si è voluto procedere d’imperio, discostandosi da pratiche ventennali caratterizzate dal consenso delle parti sociali (riforma Dini 1995, Prodi 1998, Damiano 2007, Tremonti 2010 e altri interventi minori): la norma che più fa discutere è la soppressione delle pensioni di anzianità e il contestuale innalzamento dell’età pensionabile di vecchiaia, con i sindacati ricompattati nella protesta che sono andati in piazza e hanno alzato i toni del dibattito.
Si è affondato il “bisturi” nel parco principale degli iscritti ai sindacati stessi (tutti), quelli che hanno iniziato a lavorare negli anni ‘70, con un cambiamento radicale e repentino che ha infranto progetti di vita e valutazioni circa gli assetti familiari e sociali in divenire. In realtà, si sono introdotte misure “quasi uguali per tutti”, quando uguali non si è affatto nei lavori che si esercitano: inutile negare l’evidenza, ovvero la differenza che sussiste, a parità di età, tra un docente universitario e un manovale dell’edilizia, tra un turnista a ciclo continuo e un travet ministeriale! E negli anni a venire la questione si ripresenterà.
Con le tasse introdotte, una riduzione dei redditi reali e con una fase di recessione che ci accompagnerà (minori consumi, minore produzione, minor utilizzo degli impianti, minore occupazione) il futuro non si presenta roseo; appaiono astratti i richiami alla “crescita e al lavoro”, dovendo scontare una fase di deprezzamento dei principali fattori produttivi e con il concorso mediatico verso la descrizione di un clima da “lacrime e sangue”. Anche questo scorcio di dibattito sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (legge 300 del 20 maggio 1970), che ogni tanto rispunta come simbolo da abbattere o da salvaguardare, con questa tifoseria che si trascina da qualche decennio (compreso qualche referendum popolare), appare fuorviante; qualsiasi operatore “medio” del mercato del lavoro considera la questione residuale e inincidente (riguarda meno di 2000 procedimenti all’anno). Provate a chiedere a un qualsiasi direttore del personale o a un sindacalista territoriale e ne avrete la conferma.
La questione appassiona giuristi, politici e coloro che solcano i palcoscenici dei media, non il popolo e coloro che ne sono vicini! Bonanni & Co, nelle riunioni riservate e senza giornalisti, ci direbbero che se fosse questo il punto per la soluzione dei problemi occupazionali ovvero l’attenuazione della cosiddetta reintegra in caso di licenziamenti illegittimi come fattore propulsivo all’allargamento degli occupati, sarebbero ben lieti di risolvere la questione abrogando l’articolo 18 (metaforicamente parlando)!
Ma chi crede ancora alle favole? Chi crede che il problema del lavoro si risolve con nuovi scenari legislativi? Chi crede ancora alle bacchette magiche delle tipologie contrattuali, degli avvocati che si sostituiscono agli imprenditori, dei banchieri che fanno i politici, dei sindacalisti che invocano un passato che non torna più? Chi crede ancora che il lavoro si crea per decreto legge ha un’immagine della realtà che non corrisponde alla realtà.
Il lavoro si crea, si genera, si allarga se si apporta ricchezza a un semilavorato o a una materia prima, se si inventa, si migliora e si innova un servizio, se si è in grado di vendere prodotti e servizi in mercati competitivi, in un rapporto sempre più ottimale e dinamico tra qualità, prezzo e un buon servizio al cliente, se si considera il soggetto del lavoro come il vero capitale sociale. Il lavoro si crea e si difende se si difendono le imprese, anche contro imprenditori che distruggono le imprese: un buon sindacalista sa che l’impresa è un bene comune e che la controparte è l’imprenditore, il manager.
Il 2012 sarà un anno-verità se, anziché ricercare motivi di scontro e di polemica, si deciderà quali fondamentali condividere tra i diversi soggetti della politica economica e sociale. Non sarà facile, in quanto occorrerà ridefinire il ruolo degli attori dei processi decisionali del Paese, la loro funzione e il loro peso rispetto al riordino del welfare, dei meccanismi del mercato del lavoro, degli assetti della contrattazione sociale e sindacale.
Infatti, si ha l’impressione che il problema non siano le scelte da compiere (spesso obbligate), ma chi concorre a determinarle: in definitiva è l’assetto dei poteri reali oggi in discussione e ciò pone a tema una serie di rapporti e di nodi forse non più rinviabili circa il funzionamento della nostra democrazia effettiva.
Assetti istituzionali tra i diversi livelli (centro e periferie), Parlamento, Parti Sociali, Magistratura, Ordini Professionali: in tanti (forse tutti) si occupano di molto, forse ciascuno deve tornare a fare il proprio mestiere, partendo dai dati di rappresentanza reale. Allora si decida con i rappresentanti reali degli interessi in gioco, in quanto senza intese il Paese non si governa ovvero si assumono decisioni senza effetti e conseguenze e quindi inutili.
Forse il 2012, prima delle scadenze elettorali del 2013, può costituire un anno-verità proprio sul fronte dei doveri collettivi e delle responsabilità da condividere.