“A big fat zero”: così è stata smontata negli Stati Uniti l’aspettativa sulla crescita occupazionale attesa per agosto. E davanti a un tasso di disoccupazione che non si muove da quell’altissimo (per i canoni americani) 9,1%, Obama rilancia per la seconda volta con l’American Job Act, un piano per l’occupazione da 447 miliardi. Anche nei G7 d’Europa le statistiche hanno tradito le previsioni. L’Ocse ha infatti rivisto al ribasso quelle sulla crescita: appena l’1% nella seconda metà dell’anno e addirittura segno negativo per Italia e Germania nell’ultimo trimestre.
Se l’incertezza sui mercati e le crisi del debito europee assottigliano le opzioni di breve periodo dei Governi, l’anemica crescita economica e la sedimentazione della disoccupazione nella tediosa variante di lungo periodo rafforzano invece la convinzione sull’urgenza di interventi strutturali oltre che (e più che) congiunturali.
La sfida più difficile risiede nella capacità delle economie di creare posti di lavoro reali e sostenibili nel lungo termine mantenendo la necessaria austerità, per invertire la cosiddetta jobless recovery (recupero senza occupazione) e scongiurare una jobless recession (recessione senza occupazione). In Europa questa priorità riguarda soprattutto i giovani, i cui i tassi di disoccupazione sono persistentemente alti da oltre un anno in molti paesi. A luglio 2011 il tasso di disoccupazione fra i 15-24enni era il 46% in Spagna, il 33% in Slovacchia e Lettonia, il 28% in Irlanda, oltre il 27% in Italia, Portogallo e Bulgaria, il 23% in Francia e Polonia, superiore al 20% in Regno Unito, Svezia, Finlandia ed Estonia.
Solo Germania, Austria e Olanda hanno un tasso di disoccupazione giovanile inferiore al 10% grazie all’integrazione fra formazione e lavoro. I giovani, più vulnerabili per facilità di licenziamento e mancanza di esperienza, registrano tassi di disoccupazione strutturalmente maggiori di quelli relativi agli adulti e sono i primi a essere espulsi dal mercato del lavoro in tempi di crisi e i primi a entrarvi con la ripresa economica. Tuttavia, proprio la debole crescita sta rallentando terribilmente il processo di ingresso nel mercato, lasciando una crescente quota di questi senza lavoro da oltre 12 mesi, o persino portandoli all’inattività per effetto dello scoraggiamento.
Questa situazione ha, a sua volta, un altissimo costo attuale e potenziale per le economie, direttamente in termini di spesa sociale e mancato introito fiscale, ma soprattutto indirettamente, in termini di perdita di competenze, produttività e competitività. Il costo della disoccupazione prolungata è molto alto anche per i giovani stessi, che nell’immediatezza scontano perdita di reddito e minori probabilità di essere riassunti e nel lungo periodo sviluppi di carriera caratterizzati da inferiori remunerazioni.
Un conto che si prospetta particolarmente oneroso per i giovani italiani, che in circa il 44% dei casi sono disoccupati da oltre 12 mesi (2010); quote inferiori ma comunque preoccupanti si registrano anche in Portogallo, Spagna e Francia (uno su tre) e in Germania e Regno Unito (uno su quattro). Ma l’ombra della disoccupazione di lungo periodo si allunga inusitatamente anche sui lavoratori statunitensi, raggiungendo il 30% del totale: non stupisce allora che Alan Krueger inserisca nel piano per l’occupazione degli Usa, accanto all’estensione dei sussidi alla disoccupazione, crediti d’imposta fino a 8 miliardi di dollari per le assunzioni di disoccupati di lungo periodo e (con senso più simbolico che economico) la proposta di rendere illegale per legge la discriminazione all’assunzione sulla base dello stato di disoccupazione del candidato.
La spesa di 25 miliardi di dollari da destinare all’investimento in infrastrutture scolastiche per la creazione di laboratori scientifici e ammodernamento è anch’essa volta ad avere, oltre che un immediato impatto sul mercato del lavoro attraverso la creazione di nuovi posti, un esito di lungo periodo per il mercato del lavoro del futuro.
Micheals, Natraj e van Reenan della London School of Economics hanno recentemente dimostrato che la globalizzazione e la rivoluzione Ict (che consente il trattamento e lo scambio delle informazioni in formato digitale, con la conseguente tendenza alla “dematerializzazione” dell’economia) stanno modificando la struttura dei mercati del lavoro inducendo una polarizzazione nella domanda di competenze, con un passaggio dai livelli medi a quelli alti di qualifica e con un trascurabile effetto sulla forza lavoro scarsamente istruita, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa.
Il raccordo tra formazione e lavoro, sia in termini contenutistici che temporali, è un tema cruciale anche per il nostro Paese, dove da tempo si discute di mismatch occupazionale. Invece che limitarsi a rincorrere il fotogramma delle statistiche sulle assunzioni e a cercare di coprire il numero di vacancies esistenti, le riforme strutturali possono ambire a seguire le trasformazioni in atto nei mercati del lavoro, premunendo l’impiegato medio contro la perdita di competitività indotta dal futuro mercato “bi-polare” e il giovane contro il prematuro invecchiamento della sua formazione nella lunga attesa di metterla in pratica.
(Francesca Fazio)