È buona cosa dire che per ottenere più meritocrazia in Italia è necessario il contributo di tutti. Sia dei dirigenti di partito o dei ministri, sia del singolo cittadino. Non mi piace quindi chi addossa le responsabilità a una parte senza citare l’altra. Sebbene, infatti, spesso a livello di dirigenza del Paese si trovi una certa mancanza di responsabilità per il ruolo che si occupa e di scarsità di strumenti tecnici e concettuali, spaventa anche la scarsa attenzione al problema da parte delle persone “comuni”.
Da un lato c’è, infatti, una fastidiosa incomprensione di chi lamenta per esempio che i giovani sono un po’ schizzinosi o debbano adattarsi ai lavori che ci sono, rinunciando ai propri sogni, dall’altro inquieta l’atteggiamento di chi rifiuta ogni forma di impegno sociale e soffoca ogni idea nel cinismo e nella critica preconcetta.
Se chi si lancia in anatemi improvvisati dimentica la sua responsabilità nel non riuscire a scardinare dall’interno le mille corporazioni e privilegi degli insider, come le promozioni per anzianità, le pensioni d’oro e l’impossibilità di essere licenziati per scarsa produttività, dall’altra colpisce la scarsa attenzione degli outsider che si vedono sfilare il futuro con rassegnazione e indifferenza e, anzi, qualche volta si prestano alla difesa della conservazione e dei diritti acquisiti, come in una sorta di eterno dilemma del prigioniero.
La strada per arrivare a una società più equa e funzionale comporta il contributo di entrambe le categorie. Se, infatti, si deve chiedere l’introduzione di strumenti legislativi e tecnici e una maggiore etica pubblica a chi governa, non possiamo non ricordare che la legge Sirchia che ha introdotto il divieto di fumo nei locali pubblici, ha avuto un grande successo proprio per la diffusione del meccanismo del “controllo sociale” dei comportamenti scorretti. Mi chiedo allora come sia possibile che di fronte ad assunzioni, promozioni, sprechi e a tanti comportamenti scorretti, ci sia solo una sorta di scandalismo a posteriori e non un’azione preventiva.
Mi piacerebbe vivere in una società dove le persone partecipino più attivamente alla vita associativa e culturale e si concentrino maggiormente nel capire gli impatti collettivi delle loro azioni, invece di vivere costantemente nell’irresponsabilità o quanto meno in una responsabilità limitata.
La risposta che può unire insider e outsider è meritocrazia. Ovvero la capacità di giudicare il merito del singolo individuo indipendentemente dalla sua età anagrafica, dal suo contratto, dal suo ruolo, dal suo genere o dalle sue preferenza politiche. Rovesciando il ragionamento, vale la pena di ricordare come la mancata applicazione di onesti criteri di merito continua a vedere prevalere nelle nomine e nelle scelte pubbliche le solite considerazioni partitocratiche e corporative e la tutela degli interessi corporativi, individuali e di bottega, nonché il ribadirsi di condizione di sfavore per i più giovani e i meno introdotti.
Questa condizione sarebbe forse accettabile, se non stesse creando condizioni di arretratezza e di povertà e se non negasse il principale diritto alla libertà e all’autodeterminazione del singolo individuo che caratterizza la nostra società.
Citando Abravanel, ricordiamo, infatti, come «la società italiana è profondamente disuguale e statica. Il destino dei figli è legato a quello dei genitori; molto di più di quanto avvenga in altri Paesi. La disuguaglianza fra ricchi e poveri continua ineluttabile». Che società è quella in cui indipendentemente dal proprio merito il povero rimane povero e il ricco rimane ricco e allo stesso tempo la possibilità di determinare individualmente il proprio futuro è negata? E se anche economicamente siamo sull’orlo del collasso, cosa aspettiamo a mettere in discussione le nostre idee più conservatrici e semplicistiche? Come si fa a tollerare tutto ciò in modo indifferente o addirittura trarne vantaggio?