Fosse davvero un’equazione così semplice, forse anche i sindacalisti più agguerriti mollerebbero un po’ il colpo. Scrive oggi La Repubblica che, secondo i calcoli dei tecnici del Governo, l’articolo 18 vale 200 punti di spread. Oltre a limitare gli investimenti stranieri e a costituire un intralcio per la competitività delle imprese, la celebre norma dello Statuto dei lavoratori, di fatto quindi limiterebbe le manovre messe in atto per la riduzione del deficit e, di conseguenza, del debito pubblico (se si pagasse il 2% in meno di interessi sul proprio debito, volete mettere che risparmio per le casse dello Stato?). Senza dimenticare gli effetti che uno spread elevato ha su banche, sistema del credito, imprese, ecc.
Ecco dunque che una pesante carta (se la notizia riportata ha fondamento) verrebbe messa sul tavolo delle trattative sulla riforma del lavoro da parte del Governo. Che forse sta riuscendo a inclinare tale tavolo dalla propria parte. Cisl e Uil, infatti, hanno lasciato intendere di essere disposti ad alcune aperture sui licenziamenti individuali per motivi economici. L’idea, per farla breve, è quella di riuscire a ottenere un risultato che salvi capra e cavoli. Un compito non facile e che difficilmente potrà essere raggiunto in poco tempo. Anche perché resterebbe poi da “convincere” la Cgil, che non pare intenzionata a cedere di un centimetro. Il rischio è quindi quello di arrivare a un accordo non unitario. Non sarebbe certo il primo. Anzi, l’unità sindacale in Italia sembra quasi diventata un’eccezione. Bisognerebbe infine capire a quel punto se i fantomatici “mercati” prezzerebbero ancora la riforma a 200 punti di spread.
Ma a proposito di questi “listini” delle riforme ci sarebbe di che riflettere. Mario Draghi, nel recente World economic forum di Davos, ha detto che lo spread è stato per molti paesi il motore delle riforme. Possiamo vederla in questo modo, guardando a quell’indice come a una divinità dell’apolide Olimpo finanziario che dice ai poveri mortali se i propri governanti stanno facendo bene o no. Oppure pensare che la politica sia ormai succube della finanza. Da quando il morbo della crisi dei debiti sovrani ha colpito l’Europa, i governi di alcuni paesi sono caduti come mosche e sono stati rimpiazzati da esecutivi tecnici o da rappresentanti eletti dal popolo. Si potrebbe quasi dire che lo spread somiglia al terribile giudizio di un’agenzia di rating su un Paese: guai a sgarrare!
Ma tornando all’articolo 18, se la riforma si vuole proprio fare, occhio però a non prendere i vaticini dei sacerdoti dello spread come oro colato: c’è ancora chi sta aspettando i 300 punti in meno che le dimissioni di Berlusconi dovevano garantire.