Molti di noi, per esperienza in enti pubblici ma anche per responsabilità in imprese private, sono convinti che dovremo smetterla di introdurre come scadenza per contratti, riforme, ecc. il 31/12. Sono giorni di festa, siamo tutti tesi a valorizzare le scadenze famigliari e costretti invece a saldare tasse, concludere contratti, rinnovare impegni. Almeno per non essere costretti ogni fine anno a fare corse con uffici già in organico prefestivo dovremmo decidere in modo convenzionale che le scadenze vanno portate a fine gennaio o comunque lontano dalle festività.
Ciò non è stato ancora introdotto e per questo il 31/12/2014 chiuderanno le provincie. La riforma napoleonica del nostro Stato incontrerà la prima vera trasformazione di fondo. Aree vaste e aree metropolitane sostituiranno i governi provinciali. Non vi saranno più rappresentanze dirette decise dai cittadini col voto (tranne per le aree metropolitane che lo prevederanno nello statuto), ma governi di secondo livello. Le funzioni esercitate saranno ridecise dalle singole regioni con un ulteriore pasticcio legato a un federalismo “sgangherato” come quello che caratterizza il nostro Paese dopo la famosa modifica del Titolo V. Riforma voluta dalla sinistra per contare su una possibile intesa con la Lega nord e rompere così l’alleanza di centrodestra. Come tutte le decisioni strategiche svendute per tattica di breve periodo, ha dato vita a un’instabilità politica rafforzata da una diffusa confusione istituzionale.
Vista la scadenza inderogabile, questi ultimi giorni dell’anno saranno caratterizzati dal tema degli esuberi delle provincie. Non avendo deciso centralmente quali funzioni e quindi quali competenze rimarranno in capo ai vecchi uffici e quali passeranno a regioni o comuni, non si sa quali e quanti occupati saranno necessari, né per quali funzioni. Per questo assistiamo a iniziative di tutela dei posti di lavoro che hanno nel governo l’unica controparte, anche se solo di ultima istanza.
La mancata programmazione di cosa sarebbe successo con il personale delle ex provincie fa emergere un dualismo presente nella Pubblica amministrazione che era tenuto coperto dal rinnovo tacito dei contratti dei tanti precari che svolgevano mansioni essenziali senza nessuna tutela. Perché uno dei peggiori dualismi presenti fra gli occupati nel nostro Paese riguarda i dipendenti pubblici. Da un lato, chi è assunto ha l’unico vero contratto a tempo indeterminato, perché a vita e con scarsissime probabilità di essere trasferito, né tantomeno espulso. Dall’altro, una quota sensibile di precari con contratti a tempo determinato o a progetto che, non essendo riconosciuti in organico, pur svolgendo funzioni talvolta essenziali, avevano un rinnovo annuale del contratto ma oggi non hanno nessuna tutela e saranno semplicemente non rinnovati.
L’augurio per i tanti lavoratori coinvolti è che vi sia l’ennesimo intervento di emergenza (come sembra sia avvenuto nell’ultimo Consiglio dei ministri) e che anche loro possano passare le festività con la garanzia di mantenere l’occupazione precedente. Certo, il problema si ripresenterà da qui a pochi mesi, perché l’obiettivo chiusura provincie fa parte della spending review avviata e il vero risparmio nella Pa si ha da servizi migliori realizzati con una pianta organica ristretta ma più efficiente.
Se vogliamo fare un parallelo con il settore privato, siamo di fronte a un’impresa che dinanzi alla crisi avvia una ristrutturazione che porta alla chiusura di alcuni stabilimenti, chiude alcuni servizi non più produttivi e ciò comporta che per salvare il lavoro per la maggioranza degli occupati deve lasciare a casa una minoranza dei lavoratori. Gestendo le province, i Centri per l’impiego dovrebbero sapere bene le procedure da seguire.
Un gruppo privato avrebbe svolto prima una valutazione dei servizi che avrebbe continuato a svolgere, quindi valutato quale pianta organica andava mantenuta e, al di là del tipo di contratto vi fosse, avrebbe presentato un’ipotesi di outplacement per quei lavoratori che non erano più occupabili nel nuovo processo produttivo.
Ciò che accomuna quanto sta succedendo nelle province con le crisi cui abbiamo assistito in molte imprese private nel corso degli ultimi anni sono le forme di lotta con occupazione delle sedi produttive. Anche la richiesta del “posto di lavoro non si tocca” richiama la forma più vetusta di quanto talvolta è accaduto nel settore privato. Ma nella Pa una parte dei lavoratori non può essere licenziata, per cui assisteremo all’azione perversa del dualismo contrattuale con il risultato di avere piante organiche inadeguate a rispondere ai nuovi servizi che dovranno essere forniti ai cittadini.
Per questo può essere utile una pausa di riflessione. Sarà comunque una fase di ristrutturazione. Dovranno essere messi in mobilità alcune migliaia di lavoratori della Pa: si svolga allora un processo reale di valutazione di chi servirà ancora per i servizi che rimarranno e si supporti con reti di servizi al lavoro un processo di outplacement per quei lavoratori che risultassero in esubero. Daremmo così prova che il Paese ha capito che non si possono salvare i posti ma possiamo impegnarci tutti per salvare il lavoro.
Se ciò avvenisse a partire dalla Pa daremmo prova che la svolta culturale introdotta con il Jobs Act è arrivata a cambiare la cultura del lavoro in profondità, archiviandone una che ha scambiato la tutela dei garantiti con il diritto al lavoro sancito dalla Costituzione.