L’articolo 18 non si tocca. Appena il Governo ha reso più evidenti le finalità degli interventi compresi nel Jobs Act è ricominciato il rullo dei tamburi sindacali e della cosiddetta sinistra per cercare di bloccare tutto il processo di riforma. Perché a dire la verità dietro le prese di posizione sull’articolo 18 si nasconde la pretesa di una parte della sinistra ex comunista e di parte del mondo sindacale di difendere il proprio potere di veto sulla possibilità di riformare le fonti regolative di contratti, mansioni e codice del lavoro che bloccano il nostro mercato del lavoro, regalandoci il triste primato del mercato del lavoro meno mercato (cioè immobile) fra tutti quelli dei paesi sviluppati.



L’articolo 18 in sé è ormai un paravento, è già di fatto indebolito dagli ultimi interventi legislativi, riguarda un numero limitato di lavoratori dipendenti, non è peraltro nemmeno citato dall’emendamento governativo che è stato avanzato al Senato. L’emendamento indica alcuni interventi generali di semplificazione-adeguamento di norme: il lavoro accessorio, i controlli a distanza, la possibile sperimentazione del salario minimo e un maggiore coordinamento per le attività di controllo e vigilanza. Pone però due punti: un testo organico semplificato della disciplina delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro e l’introduzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione alla anzianità di servizio.



C’entra l’articolo 18? Certo, può essere rivisto alla luce di una delega che chiede di mettere mano all’indice dei diritti e delle tutele e quindi si scriverà qualcosa di nuovo augurandoci che dai veti non esca qualcosa di peggio. Con i toni di contrapposizione avanzati la sinistra politica e sindacale appare come il vecchio Candido che viveva sempre nel migliore dei mondi possibili. Oggi noi abbiamo invece il peggior mercato del lavoro possibile, con una profonda ingiustizia nelle tutele fra garantiti e non garantiti, fra chi gode di tutele a 360 gradi e chi non ha né diritti né tutele, un sistema che ha i peggiori standard di valutazione nei percorsi scuola-lavoro e che ha una bassissima mobilità e da cui non si può uscire senza smuovere le norme fondamentali.



Il prezzo della situazione attuale è certo pagato perlopiù dai giovani che non entrano nel mercato del lavoro o vi entrano con contratti penalizzanti. Ma come dimostrato ormai da più ricerche economiche, un mercato immobile fa sì che aumentino forme di auto-occupazione a scapito della modernizzazione e crescita della dimensione di impresa nel settore dei servizi e crea un tetto anche a quanto il lavoro dipendente riceve in termini salariali. Infatti, una quota del salario è sottratta da una sorta di assicurazione al posto e diventa fattore che limita salario e mobilità.

La necessità di rafforzare le opportunità di ingresso nel lavoro chiede di abbattere queste barriere e mettere in moto un processo che faciliti la mobilità nel corso della vita professionale e permetta di creare strutture di impresa di dimensioni significative in settori dov’è la legislazione lavorativa il principale freno alle regole di mercato. Assieme alle misure per rendere efficiente il mercato va introdotta una riforma degli ammortizzatori sociali perché si crei un’efficace rete di servizi al lavoro e si supporti la ricerca di un nuovo lavoro e non l’immobilità di chi perde il posto. L’opposizione a tutto questo sta dietro allo slogan sull’articolo 18 ed è il frutto di una sinistra che solo oggi sull’orlo del baratro economico ha almeno il coraggio di voler affrontare il problema del lavoro così com’è e uscire dall’ideologia di difesa del posto fisso a scapito dei diritti al lavoro di chi non ce l’ha.

Non sono idee nuove a sinistra. Il richiamo più semplice è l’esperienza dei governi Blair in Gran Bretagna o la riforma del mercato del lavoro tedesco operata dai governi socialdemocratici. Anche in Italia per lungo tempo la sinistra ha affrontato i temi del lavoro e dello sviluppo ponendosi non dal lato dei conflitti e della conservazione, ma interrogandosi su come i lavoratori potevano contribuire allo sviluppo e alla modernizzazione del Paese. Il periodo del moralismo giustizialista ha cancellato la cultura della responsabilità nazionale facendo rifluire l’elaborazione a difesa solo di interessi corporativi, bloccando le elaborazioni riformiste ed espellendo chi si poneva obiettivi riformistici.

Per questo un emendamento che si può definire quasi minimalista, che pone il problema di fare norme contrattuali adeguate all’economia contemporanea, fissare nuove tutele per le forme del lavoro di oggi e dare vita a un sistema di servizi al lavoro di reale supporto economico e di ricollocazione per chi ha difficoltà, appare alla sinistra conservatrice come una controrivoluzione.

Ci auguriamo che questa volta il Governo non torni indietro e non si faccia intimorire dal richiamo della foresta del “nessun nemico a sinistra”. Chi lavora ha bisogno di nuove leggi per lavorare meglio, trovare più lavoro, creare più opportunità per tutti.

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