In questa “estate del lavoro” un po’ stanca e confusa, con numeri gettati in pasto ai media in cui non si capisce se stiamo risalendo la china o meno, permangono irrisolti alcuni nodi nei rapporti tra le parti sindacali e con gli imprenditori; infatti, si parla da tempo di riforma delle regole contrattuali, scadute da qualche anno, ma non si intravede il bandolo della matassa. Tra Landini e Squinzi, tra Furlan e Camusso sembra quasi che sussista un gioco a passarsi il cerino, senza approdare a risultati di una qualche concretezza.
Ci ha provato la Cisl a lanciare il sasso nello stagno, con un proprio articolato e completo documento su regole, contenuti e sedi della contrattazione sindacale del lavoro: un alleggerimento dei contratti nazionali a favore dello sviluppo ed estensione della contrattazione aziendale, con il passaggio di materie e competenze dai primi alla seconda istanza, un incremento del welfare integrativo a quello pubblico e universale (forme di aiuto alle famiglie con figli e con situazioni di disabilità, assistenza sanitaria, previdenza complementare a quella obbligatoria, ad esempio), un maggior collegamento tra le erogazioni retributive e la produttività e redditività delle imprese e via di questo passo.
In presenza di settori caratterizzati da piccole e medie imprese, la Cisl rispolvera un proprio vecchio cavallo di battaglia ovvero la contrattazione territoriale (o provinciale, per dirla come una volta si diceva): nella polverizzazione del settore dell’edilizia e degli agricoli la contrattazione è diventata protagonista di una storia di accordi valevoli per tutte piccole imprese delle aree (distretti mono produttivi compresi), anche per regolare al minimo la concorrenza e per contenere forme di dumping sociale ed economico.
Peccato che gli altri attori non vogliano sentire parlare di tutto ciò, per tante e distinte ragioni: dalle culture organizzative che hanno fatto dei contratti nazionali un totem (buona parte della Cgil) alla scarsa volontà di rinnovare i contratti, anche ai fini di un allungamento che consenta di “recuperare, non spendendo, un po’ di spiccioli” (una buona maggioranza di Confindustria).
Se queste sono le posizioni sommariamente descritte di alcuni attori, ve ne sono altri che, per convenienza, non sono particolarmente sensibili alla definizione di modelli generali che valgano per tutti i mondi del lavoro: i bancari e i settori terziari (salvo il turismo) hanno rinnovato i loro contratti “al minimo”, con reciproci scambi nelle diverse materie per trovare compromessi ed equilibri utili a lavoratori e datori di lavoro.
L’area pubblica, sentenziata dalla Corte Costituzionale a riconoscere qualche forma di tutela retributiva, si avvierà entro l’autunno a un riconoscimento economico (e vedremo cosa ci dirà, a questo proposito, la Legge di stabilità), non dimenticando che il blocco contrattuale di tremontiana memoria fu assunto nel 2010 per evitare ben più drastici provvedimenti in materia di numero di lavoratori pubblici stabilmente impiegati, come una parte dell’Europa ci ha fatto vedere.
Potremmo continuare nella descrizione dei diversi mondi settoriali e merceologici, molto diversi tra loro per dimensioni d’impresa, incidenza dei costi del lavoro sui fatturati, caratteristiche professionali degli addetti: ci fermiamo per non tediare il lettore, in procinto di raggiungere mari e monti o di fermarsi in pianure assolate e casalinghe (non a tutti è concesso di andare a spasso).
Ci permettiamo due domande: la prima è se è proprio necessario fare un modello (e un accordo conseguente) che, per accontentare i Landini, i Bentivogli e i capi di Federmeccanica (e i loro proseliti) debba prevedere regole uguali, contenuti simili e comportamenti differenti in materia di conflittualità/collaborazione. Questa idea di voler “mettere le braghe al mondo” forse appare poco realistica, come i fatti dimostrano, a scapito dei pensieri!
Ma la seconda domanda, a cui accenneremo qualche risposta alla ripresa di fine agosto, è ancora più pregnante per lavoratori e management: che fine hanno fatto i 170 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico? Pur con l’importante e sofferta eccezione della Whirlpool, le tante Ilva, Porto Marghera (più le altre 168) e le tantissime non censite, di cui solo i fogli territoriali parlano, sono lì a dimostrare che la crisi continua a mordere, che la struttura produttiva del Paese è in lenta ma costante evoluzione (non positiva per numero di addetti).
Occorre un grande senso di responsabilità nello “stare sul pezzo”, attaccati alla realtà per come essa si presenta a Lecce piuttosto che a Vado Ligure, per come si configura in Brianza o ad Ascoli Piceno: la partita della contrattazione e della rappresentanza si gioca innanzitutto qui, prima che nelle burocrazie e tra i professionisti delle riunioni.
Ma, ahimè, avremo modo di parlarne tra qualche settimana, auspicando che l’agosto porti buone decisioni.