Il periodo feriale si presta a riflessioni più di sfondo e ci permette di accantonare le polemiche quotidiane. L’autunno per il mercato del lavoro ci presenterà il conto sugli effetti delle riforme avviate e su quelle annunciate che dovranno iniziare. Per fare lavorare più persone non bastano le misure prese finora. Per il Sud, ma anche per altre situazioni territoriali, devono arrivare scelte di investimento che inneschino un nuovo moltiplicatore di occupazione. I vincoli della spesa pubblica pesano sulla quantità di investimenti in infrastrutture possibili. Sono però essenziali scelte strategiche nuove.
Se riteniamo non ripercorribili le vecchie strade seguite nel passato dobbiamo saldare investimenti strategici del pubblico a una ripresa di presenza privata. Il piagnisteo su “dateci più investimenti” non regge. Ci vuole un’assunzione di responsabilità che dia libertà di investimento senza vincoli burocratici a chi, anche usufruendo di facilitazioni fiscali o accordi salariali locali, sceglie di aprire e rilanciare presenze industriali nel Mezzogiorno.
Vediamo l’esempio del turismo. È inutile chiedere di sviluppare la rete dei trasporti (auto, treni, aerei e navi) se poi per costruire un albergo a 5 stelle si aspettano due legislature regionali e alla fine si festeggia il no alla speculazione edilizia. Al Sud serve più libertà di fare e una politica che sposi le tante disponibilità che pure vi sono e chiedono di poter crescere in progetti di sviluppo condivisi. Troppe risorse sono state sprecate per mancanza di libertà.
È questo però un problema che non riguarda solo il Mezzogiorno ma l’insieme del sistema-Paese. La riforma della Pa può dare un impulso notevole per cambiare una situazione di evidente difficoltà per chi vuole investire in Italia. Procedure con tempi certi sono indispensabili. Deve essere chiaro che il diritto a operare è della società e che la Pa deve garantire regole non la concessione del diritto che resta comunque dall’altra parte. La ristrutturazione dei servizi pubblici, se operata con tale criterio, può aprire un nuovo spazio anche per la crescita occupazionale attraverso la modernizzazione e l’informatizzazione di molte attività oggi gestite burocraticamente da uffici pubblici obsoleti.
I due temi strutturali, investimenti e politiche industriali, abbinati con la riforma della Pa, aprono possibilità affinché le riforme del lavoro dimostrino di aver creato un mercato più efficiente e in grado di sostenere la nuova fase di sviluppo. Con l’approvazione definitiva del Jobs Act si può ritenere chiuso il dibattito sulla scelta del modello da applicare. In sintesi, si è scelto il passaggio dalle tutele sul posto di lavoro alle tutele sul mercato del lavoro. Si è posto fine così a quel dualismo che per anni ha penalizzato molti lavoratori che non avevano tutele né sul posto di lavoro, né sul mercato in quanto esclusi da settori dove funzionavano solo tutele per i già inseriti.
Operata la scelta di fondo, si tratta ora di valutare gli strumenti che la devono rendere operativa. Per quanto riguarda le scelte contrattuali abbiamo registrato come il contratto a tutele crescenti abbia dato risultati per un’occupazione di maggiore qualità. Per quanto riguarda la tutela sul posto di lavoro il cambiamento è stato registrato. Non c’è stata ancora la crescita per apprendistato e part-time che sono indispensabili per ottenere un effetto significativo sul tasso di occupazione complessivo. L’attuazione di quanto previsto per la formazione professionale e nuovi contratti per favorire i lavori brevi e a part-time potranno, se applicati presto, dare risultati già nell’autunno.
Restano però da attuare le tutele sul mercato. Qui sono già in azione gli strumenti passivi. L’estensione del sostegno al reddito, sostitutivo dell’uso abnorme della cassa integrazione, è già operativa. Non è ancora estesa in modo universalistico ma ci arriverà a breve. Dovrà avviarsi così la condizionalità di politica passiva con obbligo di seguire una politica attiva per la ricollocazione. Perché decolli questo aspetto deve però essere definita la rete di servizi al lavoro indispensabile per fornire i servizi di ricerca di nuova occupazione. Su questo punto il ritardo è evidente. Da un lato sono i decreti scritti nel peggior burocratese. Rispetto al resto del Jobs Act sono la parte meno chiara e ancora con troppi rimandi attuativi.
Resta inoltre la necessità di coordinarsi con le competenze che le regioni hanno in materia e decidere come gestire le competenze sui Centri per l’impiego che dipendevano dalle province. L’assenza di una agenzia nazionale che individui un metodo unico per il territorio nazionale, che assicuri l’universalità dei trattamenti, pur rispettando eventuali metodologie regionali migliorative, è il vuoto principale che resta da colmare.
Come si vede vi sono temi ancora aperti affinché gli obiettivi posti dal Jobs Act siano effettivi e possano sostenere le politiche di sviluppo. Le forze sociali e sindacali saranno determinanti nel fare accelerare i tempi di attuazione se accetteranno un ruolo di governance responsabile abbandonando logiche rivendicative e corporative.
La responsabilità principale è però delle forze politiche. Se la scelta di fondo è ormai operata non possono allevare sui territori, con la scusa delle autonome territoriali e regionali, un’opposizione di fatto all’applicazione della riforma nei servizi ai disoccupati. Il lavoro è bene primario nella vita delle persone. Una politica che non se ne occupa con una visione strategica è una politica che si arrende e che non svolge il suo compito. Sarebbe un regalo enorme all’antipolitica e al populismo che godono già di troppi sostegni.