Se Jim O’Neill, l’economista di Goldman Sachs che per primo ha usato la sigla Bric, avesse potuto brevettare la sua invenzione linguistica, probabilmente sarebbe ora uno degli uomini più ricchi del mondo. Bric è infatti un acronimo sempre più usato e indica Brasile, Russia, India e Cina, i quattro Paesi che non sono legati da alcun accordo, trattato e formula politica, ma che hanno costituito negli ultimi anni le realtà più dinamiche già molto prima della grande crisi del 2009.



È stata proprio questa crisi, tuttavia, a cambiare profondamente le prospettive di crescita del sistema economico mondiale. Sia perché ha rimesso in discussione i rapporti tra finanza ed economia reale, sia perché ha dimostrato la necessità di fondare su nuove basi e anche su nuove formule interpretative la crescita nei consueti paesi che tradizionalmente vengono chiamati “industrializzati”.



E così, di fronte a un sistema economico che ha mostrato tutte le sue debolezze, l’esperienza dei Bric è diventata, come spiega nel suo ultimo libro Andrea Goldstein, economista dell’Ocse, (Bric, Ed. Il Mulino, pagg.168, € 15), non tanto un esempio di nuovo modello economico, quanto una dimostrazione di come sia possibile la crescita anche attraverso strade quasi opposte ed esperienze anche lontane. E, in effetti, il capitalismo di Stato di Pechino è fortemente diverso dall’economia oligarchica di Mosca, dalla socialdemocrazia popolare che lascia spazio alle grande multinazionali di Brasilia, dalle avanguardie tecnologiche di New Dehli.



Ma c’è comunque un’esperienza per molti aspetti comune in questi paesi che infatti hanno iniziato un cammino di confronto in un primo vertice in Russia nel 2009, un secondo in Brasile lo scorso anno e un terzo nelle scorse settimane in Cina a cui è stato invitato anche il Sud Africa, coniando la nuova formula “Brics”.

È forse ancora presto per dire se questi paesi riusciranno ad avviare qualche meccanismo se non di integrazione economica, almeno di strategia e di politica comune. La testa fuori dal guscio hanno comunque già provato a metterla chiedendo, per esempio, di rompere con la tradizione che vuole un europeo alla guida del Fondo monetario internazionale, una tradizione che si fonda sugli accordi di Bretton Woods degli anni ‘40, e che non ha certo più ragione d’essere in un sistema così profondamente cambiato.

I Bric hanno dalla loro parte la popolazione dato che in questi quattro Paesi (o cinque nel caso dei Brics) vivono più di metà degli abitanti del pianeta, una popolazione che tuttavia è contrassegnata da grandi disuguaglianze e da un diffuso livello di povertà. E allo stesso modo in tutti vi sono forti disuguaglianze regionali, soprattutto a livello di infrastrutture, che rischiano di costituire un problema per l’enorme fabbisogno finanziario necessario per offrire acqua, energia, fognature per rispondere ai bisogni di base dei cittadini.

Resta il fatto che i Bric sono anche una positiva speranza per tenere accesa la fiammella della crescita anche nei paesi industrializzati. Perché solo il traino del commercio con queste realtà potrà offrire una spinta significativa all’economia mondiale. Aiutando anche questi stessi Paesi ad avvicinare obiettivi di fondo come la democrazia, il rispetto dei diritti, la libertà individuale su cui sono stati certamente compiuti passi in avanti, ma che restano ancora un traguardo complesso e lontano.