Giunge come un soffio di vento fresco e leggero, capace di spingere più in là le nubi sovrastanti il nostro cielo, questo racconto di formazione di un giovane degli anni 50 che, all’interno del “ciclone” del ’68, ha saputo trovare una via per rispondere con certezza e fiducia alle sfide di quell’epoca turbolenta. Non pensate però di trovare in queste pagine una analisi storico-critica del grande evento del ’68 e neppure dell’altro “ciclone” che ha investito in quel periodo la vita del nostro autore, ovvero l’incontro con Comunione e Liberazione.



Il libro di cui parliamo, infatti, L’epoca mia sembra fatta di poche ore, di Mario Lo Pinto (Mimep-Docete, 2022) non è un’ennesima biografia di un reduce del ’68 e degli anni di piombo, né una specie di “amarcord” di quel che ha significato diventare un ciellino negli anni 70, ma è la descrizione di come la vita sia una scoperta di sé in tutte le sue dimensioni e di come si possa realizzare un percorso di presa di coscienza delle esigenze dell’umano, che porta i suoi frutti fino ad oggi anche nel contesto di un periodo tra i più drammatici.



Il nodo culturale decisivo del testo è la convinzione del nostro che la realtà va incontrata all’insegna della gratitudine per l’esserci della vita (come direbbe Hannah Arendt) e non per l’esigenza di esserci (“Per la nostra antropologia ciò che contava era esserci, marcare una presenza. Bramavamo di vedere la storia in movimento e pretendevamo di farne parte. Il marxismo ci aveva offerto l’illusione più inebriante di riuscirci”) come ci ha ricordato, riflettendo su quegli anni, l’ex sessantottino Antonio Polito, e neppure col risentimento dei tanti giovani d’oggi, per i quali esistere significa affermarsi in contrapposizione a chi ci ha generato e preceduto.



È così che per il giovane liceale di Milano, l’irrompere del ’68, in concomitanza con lo sviluppo della problematica di senso adolescenziale, costituisce un primo risveglio dell’esigenza di inserire la propria avventura di vita in un orizzonte globale, ma, e qui sarà interessante leggere le annotazioni sugli inizi del ’68 nel suo liceo, l’ideale rivoluzionario non gli appare adeguato nel tener conto di tutti i fattori della vita.

Il suo “interesse per le cose” lo porta così, attraverso una serie di indizi, che sono volti di giovani impegnati, a cercare il senso della realtà e proposte di gesti o iniziative comunitarie, ad andare al fondo dell’“abisso del desiderio” e all’incontro che cambierà l’intera sua esistenza (non a caso il sottotitolo del libro recita: L’incontro che ha cambiato la mia vita nel decennio 1970/1980).

L’avvenimento che lo cambia ha un luogo e una data, il 4 aprile 1969 a Varigotti, ma la sua specificità è descritta, più che nel suo concreto svolgersi, nelle conseguenze che ne derivano e che illuminano la vita e le scelte di Mario per tutto il decennio che segue.

Lasciamo al lettore il gusto di vedere come l’incontro con Cl non sia stato il portare il cervello all’ammasso (come temeva la madre del protagonista), né un impegno volontaristico ad applicare alla vita princìpi teorici, ma una storia di rapporti, scelte e giudizi, in grado di abbracciare con realismo e umiltà tutti gli ambiti dell’esperienza umana, anche quelli in cui fa capolino la fragilità personale. Un vero flusso di vita nuova che perdura nel tempo, per cui ancora oggi egli può dire degli amici di allora che “siamo sempre insieme, non che mi sembra di essere insieme come quella volta”.

Al centro del testo c’è la tensione a mostrare l’unità tra la vita e il senso che fa vivere l’esperienza della “comunione” incontrata (e qui campeggia il riferimento alla figura di don Giussani, con il quale l’autore ha intrattenuto un crescente dialogo diretto e indiretto e che viene rievocata in una prospettiva che facilita l’immedesimazione immaginativa al tipo di vita della comunità di Cl di quegli anni).

A prima vista il libro potrebbe sembrare un testo pensato solo per chi è nato intorno agli anni 50 o per chi vuole approfondire il nesso tra il ’68 e l’avvento di Comunione e Liberazione, ma, addentrandosi nei “meandri” di questo apprendistato alla vita, appare sempre più chiaro che invece “è un libro scritto per quelli che verranno dopo”, nella convinzione che “l’unico modo per rianimare i ricordi e trasformarli in fatti che influiscano nel presente è analizzare come si son verificati, quasi a prescindere da come ci hanno influenzato”.

Questo progetto si documenta nel corpo del testo attraverso una scrittura essenziale, in cui si distinguono bene le considerazioni sugli orizzonti e gli “stati d’animo” con cui erano vissute le svolte esistenziali del periodo e le più mature riflessioni sulle stesse sviluppate nel corso degli anni seguenti, e gli avvenimenti sono sempre presentati con una certa “ironica leggerezza”, che alterna momenti poeticamente evocativi a giudizi pungenti sul contesto socio-culturale, sempre però venati da un simpatico humour.

L’originalità della ricostruzione del cammino di Mario verso le certezze della maturità sta nel fatto che sia il percorso autobiografico sia il contesto storico nel quale è inserito partecipano di una cornice più ampia, perché “la vita non è delimitata dal perimetro del mio io”, ed è basata sulla convinzione che “al di fuori del perimetro delle mie limitate percezioni esista il vero, il bello e il bene”; tutto insomma è attraversato dal senso del Mistero della vita e dell’urgenza del Destino.

Leggere questa storia è perciò l’invito a riscoprire che anche noi possiamo considerare che “ogni cosa che accade è rivolta a me” e che è possibile incontrare anche oggi un flusso di vita nuova, purché si abbia un animo da fanciullo, disposti cioè ad accettare la sorpresa di un avvenimento “piuttosto che – come nota Alain Finkielkraut – credere che si possa, con il solo esercizio dell’intelligenza, fissare la storia in leggi inesorabili”.

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