Non credo sia casuale che Renzo sia orfano di padre e madre, ma abbia come famiglia Lucia ed Agnese, con le quali prefigura un futuro di vita insieme. E in Lucia senza dubbio Manzoni adombra Enrichetta. Lucia è il faro di Renzo: ogni volta che il giovane, nelle sue peripezie, si vuole abbandonare alla furia della vendetta per l’ingiustizia subita (ideale di vita decantato nelle poesie giovanili di Manzoni), è l’immagine di Lucia, che accorre nella sua mente a purificarne le intenzioni, a pacificarne l’ira. “E Lucia? Appena questa parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo, v’entrarono in folla. Si rammentò degli ultimi ricordi dei suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madonna e de’ santi, pensò alla consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi senza delitti, all’orrore che aveva tante volte provato al racconto d’un omicidio; e si risvegliò da quel sogno di sangue”.
Ecco cos’è Lucia per Renzo: letteralmente un’apparizione che strappa Renzo al male, che impedisce, con la sua sola presenza, addirittura col suo solo ricordo, di pensare al male. Lucia è colei che impedisce a Renzo di trasformarsi in un giustiziere violento, indicando la via della fede come vera alternativa all’odio. A Lucia Manzoni affida le due riflessioni cardine del romanzo: lo struggente “Addio ai monti” e il famoso “sugo della storia”. Lucia custode e memoria per Renzo dell’esperienza cristiana, “luce”, come dice il suo nome stesso, sulla storia e sul suo senso profondo. In questo, sicuramente Lucia per Renzo, come Enrichetta per Manzoni, è figura della Madonna. E alla Madonna la giovane promessa si voterà, nella terribile notte passata al castello dell’Innominato e la fede di Lucia si erge, come presenza inesorabile, dinanzi alla minacciosa violenza dell’Innominato, tanto da sbaragliarla e accendersi come luce nella tenebra del tormentato criminale.
Ma ancora a una donna Manzoni affida uno degli episodi più commoventi ed espressivi di quella mentalità nuova, di quello sguardo nuovo sulla storia e sulla vita, che la fede dona all’uomo. È l’episodio della madre di Cecilia, durante la peste a Milano: “Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale”.
Come non vedere i tratti della Vergine Maria che segue il figlio al Calvario! “La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo”. “Un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo”, questa è l’umanità nuova generata dalla fede, che permette di vivere ogni circostanza, anche la tragedia disperante della peste, della perdita della figlia (e dell’intera famiglia) come il faccia a faccia col Destino, col Mistero.
Ed è infine ad alcune donne che Manzoni affida l’immagine finale dell’affresco della peste e del lazzeretto, immagine di quel popolo cristiano che è il vero cuore, il vero “sugo della storia”: sono le balie che con amore si prendono cura dei bambini rimasti orfani nel lazzeretto, incarnazione vivente di quella carità, dono totale di sé, che senza tanti proclami e trionfi, si fa volto concreto della fede: “Qua e là eran sedute balie coi bambini al petto: alcune in tal atto d’amore, da far nascere dubbio nel riguardante, se fossero state attirate in quel luogo dalla paga, o da quella carità spontanea che va in cerca de’ bisogni e de’ dolori. Una di esse, tutta accorata, staccava dal suo petto esausto un meschinello piangente […] Un’altra guardava con occhio di compiacenza quello che le si era addormentato alla poppa, e baciatolo mollemente, andava in una capanna a posarlo sur una materassina […] Una accorreva alle grida d’un bambino affamato […] Questa correva a prendere un poverino […] quella portava in qua e in là il suo, ninnandolo, cercando, ora d’addormentarlo col canto, ora d’acquietarlo con dolci parole, chiamandolo col nome ch’essa medesima gli aveva messo”.
Non siamo dunque qui, come detto in precedenza, di fronte a un ideologico elogio di genere (non mancano infatti nei Promessi sposi personaggi femminili negativi, da Gertrude a donna Prassede), ma di fronte a una constatazione dal valore storico e culturale ben più pregnante: le donne nell’opera di Manzoni e nella tradizione cristiana tutta, da sempre, nella loro sapienza umile e concreta, hanno custodito la fede, preservandola, alimentandola, comunicandola giorno per giorno, impastandola di carità e di dedizione, trasmettendola ai loro uomini (mariti e figli), interpretando così un compito familiare, un ruolo sociale e una vocazione spirituale di profonda ed incalcolabile rilevanza storica.
(2 – fine)
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