Marilyn ha gli occhi neri (2021) – che verrà proiettato oggi al Meeting di Rimini (Corte degli Agostiniani, ore 20:30) – è un film con a tema il disagio mentale, un argomento non facile da raccontare, realizzato dal regista Simone Godano come commedia e affrontato con delicatezza e ironia. Il film inizia con Diego (Stefano Accorsi) che devasta la sala del ristorante dove lavora come cuoco. Tutto al ralenti e a tempo di musica. Ricorda un po’ le scene violente de Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah.
Diego è pieno di tic, balbuzie, fissazioni, non riesce a contenere la rabbia e vive concentrato per riconquistare l’affetto della figlia Bianca che può vedere solo in presenza degli assistenti sociali. Clara (Miriam Leone) è una mitomane cacciaballe che per dispetto al marito ha appiccato fuoco alla sua casa. Ha un affetto smisurato verso una donna anziana che vive in una residenza per anziani. I due s’incontrano in un centro diurno dove hanno l’obbligo di svolgere terapia di gruppo sotto la guida dello psichiatra Paris (Thomas Trabacchi). Insieme a loro vi sono altre persone: Sosia, convinto che tutti lo siano; Susanna con sindrome di Tourette; Chip, convinto complottista; Gina, giovane ragazza sempre in pattini che non parla mai. Le loro interpretazioni possono sembrare sopra le righe, macchiettiste, ma la realtà supera la fantasia, sono invece veritiere.
Lo psichiatra li coinvolge in un lavoro concreto per uscire dal loro giro mentale e ad aprirsi con persone cosiddette normali: cucinare un pasto a mezzogiorno ai vecchietti del quartiere. E la cosa funziona.
Clara parte per la tangente, istituisce un falso profilo internet di un ristorante con tanto di critiche entusiastiche e convince Diego, ad aprire il locale al pubblico. Coda e prenotazioni a non finire in un ambito con situazioni e personaggi strani.
Tutto va a gonfie vele, finché Clara tenta di baciare Diego dimostrandole il suo amore. Lui la rifiuta concentrato solo sul non voler perdere l’affetto della figlia e accade il patatrac, che non vi svelo. Il ristorante viene chiuso e Clara obbligata dal giudice a risiedere stanziale in una comunità.
Ma poi c’è l’happy end con Diego, sicuramente telefonato sin dall’inizio del film, ma che ha avuto la sua strada contorta e il suo cammino che è stato come lo scalare una montagna per un bagnino nato sulla costiera romagnola.
Non è facile affrontare la patologia del disagio mentale. Guardo con ammirazione le varie comunità residenziali che accolgono questi malati. Una di queste, anni or sono, partecipava a una vacanza settimanale dove mi palesavo guardandoli strano. Ma poi vedevo che, aldilà della carità umana, chi viveva con loro aveva un approccio umanamente normale nel trattarli.
Ho avuto l’occasione di conoscere per lavoro alcuni psichiatri, una professione difficile a cui, secondo me, bisogna essere destinati. Non saprei dare un giudizio tecnico, alcuni sono convinti che oltre alle medicine vi sia una componente di sforzo personale da applicare, come Paris nel dialogo con Clara dopo il patatrac. Due psichiatri mi hanno colpito però per l’assoluta dedizione anche umana e non solo professionale. Non giudicavano i malati solo sotto l’aspetto medico come, ad esempio, noi spesso affermiamo: Ma quello è fuori!
Sicuramente l’aspetto amorevole verso queste persone con disagio mentale era una forte componente non sentimentale ma di accompagnamento reale e costruttivo. Così come verso la fine del film il padre di Diego gli ricorda che nella sua vita l’ha amato per quello che era.
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