Cortesia, clima collaborativo e rapporti “centrati sui contenuti”, ha detto il presidente del Consiglio Meloni al termine dell’incontro con Macron. Preparato dal paziente lavoro di tessitura di Mattarella, l’atteso bilaterale si è concluso con un bilancio positivo per entrambe le parti. “Si avvertiva una certa cautela, ma alla fine si è tenuto quasi a ostentare i punti di convergenza. Buon segno”. Commenta così l’incontro Francesco De Remigis, giornalista specializzato in politica francese e mediorientale, corrispondente del quotidiano Il Giornale.
Tutti i dossier affrontati, tranne Expo 2030, sembrano promettenti, dai migranti alla sponda che potrebbe arrivare da Macron sul negoziato relativo al Patto di stabilità.
Qual è stato il vero segno politico di questo vertice?
Il pragmatismo. Aspettiamoci un anno di pragmatismo fino alle europee. Digrignare i denti non serve più a nulla in questa fase, nonostante gli antagonismi. Certo, i sospiri della premier Meloni mentre pronunciava parole al miele accanto a Macron danno l’idea di quanto sia ancora delicato lavorare fianco a fianco. A Parigi c’è un governo che vede la destra come fumo negli occhi, un pericolo per la tenuta della “Macronie”.
Perché è così complicato?
A parte il credo politico diverso, la Francia è un alleato ma è pure un concorrente. E ad alimentare le tensioni, nelle ultime ore, c’è stata anche la visita di Elon Musk a Roma e poi di nuovo a Parigi, è indeciso su dove investire con Tesla. Miliardi e centinaia di posti di lavoro in ballo.
Era più importante l’agenda oppure il faccia a faccia, dopo tutte le frizioni degli scorsi mesi?
Incontrarsi era necessario, specie in vista del Consiglio europeo di fine mese. Dopo gli insulti del Governo francese si è riusciti a organizzare un incontro vero, non improvvisato come le fugaci chiacchierate tra i due a margine dei vertici internazionali. C’è stato un lavorio incredibile degli sherpa e dei diplomatici per trovare i punti di accordo più che insistere sui disaccordi. Ed è chiaro che la posta in gioco è quella delle partite comuni in Europa, immigrazione in primis.
Ecco, prendiamo i migranti. È davvero un problema comune?
Su questo tema la Francia ha problemi più grossi dell’Italia. Macron è tuttora incastrato nell’eterna altalena destra-sinistra, tra “fermezza” e “accoglienza”. Ma stavolta non può non essere leale con Roma, dovrà optare per un inasprimento ulteriore delle politiche, tanto francesi quanto europee. Gli conviene, anche a costo di dover digerire l’attivismo italiano in Maghreb. E lo ha lasciato intendere.
Davvero non ha scelta?
Dopo l’assalto del rifugiato siriano ad Annecy, in Alta Savoia, sopraggiunto nel pieno della discussione sulla nuova legge immigrazione che dovrebbe limitare le maglie del diritto d’asilo Oltralpe, Macron è a un bivio. O guarda ai suggerimenti della destra, facendoli propri e ammantandoli di apparenze, o continua a insistere su una politica fallimentare per stessa ammissione perfino di certi deputati macroniani, che ormai non si riconoscono più nel mantra del presidente, “al tempo stesso”. Gli sbarchi sono quadruplicati e le domande d’asilo, fuori controllo, hanno perso buona parte delle iniziali ragioni d’essere.
Dunque è una situazione che Macron non si può più permettere.
E credo neppure la Francia. Ieri, dopo l’ennesimo fatto di sangue, Le Pen è tornata a evocare il legame tra insicurezza nelle strade e immigrazione incontrollata, “anarchica” l’ha definita, ripresa poi da tutti i tg. Meloni e Macron, pur partendo da approcci quasi opposti, stanno convergendo sulle azioni da elaborare in Africa, convincendo l’Ue, e credo sia un bene anche per l’Eliseo. È passato il messaggio della difesa delle frontiere comuni.
L’accento sul controllo delle frontiere esterne e l’implicito supporto della Francia all’Italia a tuo avviso può avere una caduta operativa, concreta, soprattutto in Tunisia?
Certo, deve averla. Altrimenti salta ogni operazione europea. Il nuovo Patto su immigrazione e asilo, che si dovrebbe definire entro un anno, si basa proprio sulle frontiere esterne. Se non si chiude il memorandum con la Tunisia, come prima urgenza, non si può andare a un accordo che assecondi la linea italiana e in parte francese. La ripartizione dei migranti già sbarcati è meno importante in questa fase. Non a caso questa settimana anche il ministro dell’Interno di Parigi è andato a Tunisi. Le soluzioni tampone non sono più pensabili, lo hanno ammesso anche i commissari Ue.
Sull’Ucraina, Macron ha citato il sistema Samp-T, già operativo sul campo, Meloni ha ribadito collaborazione nel sostegno “a 360 gradi”. Siamo sicuri che anche la Francia la pensi così?
Assolutamente sì. Macron e Meloni su questo aspetto sono centrati. Poi che ognuno debba tergiversare su certi passaggi ci sta, vista la quantità di armi che stiamo inviando in Ucraina. Un anno fa era impensabile un sostegno tanto importante, si cerca di cogliere il momento più opportuno, e non sempre quello favorevole all’uno va bene anche all’altra. Ma c’è più convergenza tra Parigi e Roma che non tra Parigi e Berlino. E non solo sulla difesa di Kiev, ma pure su quella dell’Ue.
Questo è un punto centrale. Nella riforma del Patto di stabilità oggi Francia e Italia si trovano di fatto alleate contro gli automatismi auspicati dalla Germania. “L’austerità non è una opzione”, ha detto Le Maire all’FT. All’Ecofin Giorgetti era sulla sua linea: priorità alla crescita. Il tuo scenario?
Pure su questo aspetto delicatissimo del Patto di stabilità si gioca una battaglia sui nuovi equilibri europei. Ma stavolta non tanto fra partiti, i popolari e i conservatori, i liberali e i socialdemocratici. Ma tra Stati. Roma e Parigi hanno lo stesso interesse anche in questo caso, pur con visioni politiche distanti, e devono intendersi e convergere. È una necessità; altrimenti vincono Berlino e i falchi olandesi. Tornare a crescere, dare impulso alle aziende non con mancette di Stato, con investimenti e taglio delle tasse sul lavoro è la linea Roma-Parigi. Roma vuole lo scorporo degli investimenti strategici dal computo del deficit. E credo avrà sponde da Macron.
L’Expo e la candidatura di Roma. Qui la convergenza è poca: risulta che Parigi sostenga l’Arabia Saudita. Potrebbe ripensarci e aiutarci?
Qui non credo ci siano margini per un ripensamento. L’Eliseo ha lasciato intendere in modo piuttosto chiaro che l’abbraccio con Riad rimarrà tale, le ragioni sono diverse. Roma dovrà cercare sponde altrove.
Oggi i due firmatari del Trattato del Quirinale hanno lo stesso peso politico?
Dipende in quale sede. In Europa la Francia è più solida. Ma per esempio con gli Stati Uniti la mano di Meloni stretta a quella di Biden parla da sola. E la presidenza italiana del G7 è alle porte. L’Italia ha occasioni che non deve sprecare e la Francia non deve storcere troppo il naso. Se c’è amicizia, non deve esserci gelosia ma dialogo e collaborazione proficua nelle sfide comuni: a Bruxelles, sovranità strategica in primis. E nel Mediterraneo, opera di stabilizzazione.
C’è questo rischio “invidia”?
Dobbiamo immaginare il rapporto Italia-Francia come una lasagna, vari ingredienti ben organizzati che producono nel complesso un interscambio di oltre 111 miliardi di euro. Pezzi dell’establishment francese non gradiscono un’Italia con un governo “politico”, che non arretra su sfide dirimenti per la riuscita della legislatura. Macron pian piano sta cogliendo le potenzialità di questa Italia. E alla cooperazione economica bilaterale già eccellente sta accostando l’intesa “personale” in una prospettiva di rilancio della politica industriale continentale, che Meloni vuole perseguire al 100 per cento. Roma spinge anche su una transizione verde compatibile con lo sviluppo di entrambi i Paesi, e che sia sostenibile per i cittadini, e Parigi non si tirerà indietro neppure su questa linea italiana, perché conviene anche ai francesi.
Due stelle polari per Italia e Francia?
Sovranità da ritrovare su agroalimentare e industria, e autonomia europea anche sulla difesa, a partire dai cieli. Francia e Italia corrono in parallelo. La Germania, e sta qui la differenza di approccio rispetto a Roma e Parigi, non si scompone nel vedere le manovre “militari” dei “cugini”.
Com’è possibile?
Guarda al di fuori dell’Europa, fa affari con l’America e con Israele comprando il sistema anti-missile israeliano Arrow 3 per 4 miliardi. È uno “scudo” giudicato poco compatibile con la dottrina della deterrenza nucleare francese. E che sposta gli equilibri Ue.
All’Eliseo ci sarà malcontento verso la Germania.
Al di là della mera questione industriale miliardaria, la scelta di Berlino di pagare sistemi “stranieri” anziché fare accordi con i Paesi Ue, Francia in primis, è politica come altre in passato. Berlino teme i missili russi, che si prepara a neutralizzare una volta lanciati. Parigi dice che la dottrina della deterrenza funziona se si punta a prevenire che i missili vengano lanciati, tenendo per sé gran parte del potere. Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte dei russi, Berlino si è mossa in autonomia. Francia e Italia no.
Come vive il cancelliere tedesco Scholz l’intesa Roma-Parigi?
Non si preoccupa del potenziale nuovo asse, sapendo che la Germania è legata alla Francia dall’energia, e all’Italia dal settore auto e non solo. Sa benissimo che la prospettiva di rilancio della politica industriale del Vecchio continente non può escludere Berlino, non è successo dopo le grandi guerre del Novecento e non succederà oggi. Ma se Italia e Francia lavorano per archiviare l’austerità e superare i vecchi parametri europei, Berlino si oppone. E invece dovrebbe riflettere.
Che cosa intendi dire?
A Berlino si dimenticano che per risollevare le industrie tedesche si permise alla Germania un trattamento di favore proprio suoi “debiti” di guerra. E oggi, che altri chiedono possibilità di spesa per risollevare le industrie, nazionali e quindi europee, si mette di traverso?
(Federico Ferraù)
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