Franco Prinzivalli è uno dei più grandi sarti italiani. Inizia giovanissimo, in Sicilia da dove, a 18 anni, fa armi e bagagli per trasferirsi a Milano. Qui, dopo l’iniziale gavetta, si fa strada nello star system della sartoria meneghina. Tanto che, sul finire degli anni ’60, ancora giovanissimo, la sua carriera decolla. Allora partecipa al concorso Forbici d’Oro, il massimo riconoscimento attribuito dall’Accademia Nazionale dei Sartori (oggi, è direttore del concorso). Viene notato per la sua bravura da un’azienda giapponese, che gli chiede di fargli da consulente per rendere i propri sarti in grado di cucire i suoi stessi capolavori. A Milano si ingrandisce, tanto da divenire un’eccellenza del settore. Ma, ad un certo punto, la sua parabola si fa discendente. Colpa dello spread? Della crisi? Dell’assenza di ordini? Macché: ad un certo punto, ironia della sorte, rimane senza dipendenti. Lui, tuttavia, non si dà per vinto. E, ad oggi, non ne vuole sapere di appende al chiodo ago e filo. Sabato avrà inizio la 16esima edizione dell’Artigiano in Fiera, che fino all’11 dicembre ospiterà circa 3mila espositori da 110 Paesi del mondo nel nuovo polo di Rho-Pero. Ci sarà anche Prinzivalli. Che illustrerà, nelle vesti di capo-mestiere dell’Unione artigiani, l’importanza del suo lavoro. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua storia.



Ci spieghi come ha iniziato

Ho iniziato a lavorare a 13 anni, nel mio paese natale, Caltavuturo, in provincia di Palermo. Dove, su 5-6mila abitanti, c’erano 5-6 sarti. A 18 anni mi sono trasferito a Milano, per iniziare il tirocinio. E dove non le nascondo di aver anche un po’ patito la fame. La città, del resto, era considerata l’eccellenza assoluta dal punto di vista sartoriale e riuscire ad accedervi, per un meridionale, era il massimo. A 23 anni ho iniziato a lavorare con il mio grande maestro, Mario Donnidi, di Donnidi e Caraceni, la sartoria più celebre di allora.



Quando si è messo in proprio?

Nel ’73, dopo l’esperienza in Giappone. Ho aperto un piccolo negozio in Piazza Liberty. Una volta diventato troppo piccolo, mi sono spostato in Via Borgogna. All’epoca avevo 4-5 dipendenti e un laboratorio di 100 metri quadrati. Poi, sono stato costretto a fare il percorso inverso…

Cioè?

 

Mano a mano che i miei dipendenti andavano in pensione, non riuscivo a rimpiazzarli. Non c’erano più sarti. Due anni fa, sono rimasto solo. Il laboratorio è diventato troppo grande e mi son trasferito in via Conservatorio. Dove mi trovo tuttora, e lavoro in 48 metri quadrati.



Quanti clienti aveva ai tempi d’oro?

Nella sartoria, non contano i numeri, ma la qualità. Alcuni clienti, infatti, erano capaci di acquistare 7-8 capi. E ogni capo, se rasenta la perfezione, oggi può costare fino a 4.500 euro.

Scusi, ma lei ha quasi 72 anni: perché non va in pensione?

Uno che è affezionato al proprio lavoro, ed è abituato ad alzarsi alle 6 di mattina, difficilmente riesce a cambiare vita. E, poi, c’è sempre l’azienda giapponese cui faccio consulenza. Ci vado due volte l’anno e, senza ombra di dubbio, oggi potrebbero gareggiare con qualunque azienda sartoriale italiane.

Lei è rimasto uno degli ultimi…

Il diradarsi dei sarti rappresenta, per l’Italia, una perdita di ricchezza. Pensi che dagli anni ’50, fino, almeno, agli anni ’80, era una professione rinomata, apprezzata in tutto il mondo. La sartoria italiana era stata in grado di superare anche quella inglese, un tempo considerata la migliore.

Poi, cos’è successo?

 

 

 

I giovani hanno iniziato a subire la cultura propagata dai mezzi di informazione. Dove i protagonisti erano gli stilisti, non di certo i sarti. Per cui, a un certo punto, i ragazzi che volevano dedicarsi alla professione hanno iniziato a considerare il mestiere degradante, considerando molto più prestigioso il mondo della moda.

Crede che il fenomeno possa impattare negativamente sul nostro tessuto economico?

Certo: c’è stata, negli anni passati, una grande miopia. Non ci si rende conto tutt’ora di quanto ci costerà. Penso all’azienda Brioni, ad esempio, leader internazionale del proprio settore, ceduta ai francesi. Aveva iniziato come sartoria ma, espandendosi, aveva continuato ad assumere sarti per confezionare i suoi capi conosciuti in tutto il mondo.

Esiste un modo per porre rimedio alla situazione?

Il problema è che, oggi, al limite, esiste qualche corso sponsorizzato dalle regioni della durata di alcuni mesi. Non ci sono più, tuttavia, corsi professionali, in grado di formare nuovi sarti. Che dovrebbero durare anni, ed essere paragonati, come dignità, al periodo scolastico. Del resto, si spendono decine di migliaia di euro per far frequentare ai propri figli corsi per diventare stilisti. Eppure, quanti di essi, mi chiedo, lo diventeranno? 

 

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