E’ riuscita a sopravvivere al fallimento della sua casa madre olandese, e per salvarla sono intervenuti i suoi diretti concorrenti che non volevano che il know how dell’azienda italiana andasse perso. E’ la storia di Bovema Italia, che produce impianti di ventilazione industriale e che dal giugno 2009 è un’azienda totalmente italiana, dopo essere stata al 50% di Bovema International con sede appunto nei Paesi Bassi. Nonostante la crisi, l’utile annuo nel 2009 e nel 2010 è stato di 1 milione di euro, su un fatturato di poco meno di 3,5 milioni di euro. Un risultato che la dice lunga sulla solidità finanziaria e sul valore aggiunto della società, che conta su un rating 1 AA. Come spiega il titolare, Luca Marzola, ciò che distingue Bovema Italia non sono le sue dimensioni, ma l’impostazione dell’organizzazione interna che le ha permesso di affrontare la crisi economica con i conti in attivo.



Marzola, ci racconti come è arrivato a lavorare per Bovema…

Ho iniziato fresco di laurea in ingegneria. Mi sono trovato in un’azienda che spingeva, cresceva del 20% ogni anno, e Luciano Suttora, l’ingegnere che la guidava, ormai cominciava ad andare per i 70 anni. La situazione stava iniziando a diventare pericolosa, perché una crescita simile richiede investimenti coraggiosi ma anche innovazione e know how. E’ stato un momento delicato, ma aiutato da amici che facevano parte di Cofidi e del club Cdo Libera Impresa, ho dovuto pian piano accompagnare Suttora alla vendita dell’azienda. Un passaggio generazionale che doveva essere fatto con molta attenzione, perché altrimenti si rischiava di fare fuori le persone, e non era certo quello il mio intento.



Quindi che cosa è avvenuto?

Ho acquistato la quota del 50% che apparteneva a Suttora, rimasto nella società come collaboratore. Mentre il restante 50% era di proprietà di Bovema International. Dopo sei mesi, nel 2008 la casa madre olandese, che contava su 120 dipendenti, ha cominciato ad andare in crisi, e in seguito ad alcune operazioni finanziarie sbagliate è fallita nel giro di un anno. Bovema Italia si occupava della parte ingegneristica, commerciale, dell’installazione dei sistemi, ma la produzione avveniva ancora tutta in Olanda. Appena ci siamo resi conto di quello che stava accadendo, ho iniziato a girare l’Europa recandomi dai nostri concorrenti in Francia, Germania e Paesi Bassi. Mi sono accorto però che non c’era bisogno di presentarmi, perché ci conoscevano già.



Che cosa faceva di Bovema Italia una realtà conosciuta in Europa?

In Italia non siamo certo l’azienda più grande nel nostro settore, ma siamo quella più all’avanguardia dal punto di vista tecnologico. Per questo, diverse imprese straniere hanno accettato di aiutare la Bovema, anche se per loro era un diretto concorrente, perché questo permetteva loro di entrare nel mercato italiano.

 

Ma c’erano altri motivi per questa scelta così imprevedibile?

 

Anche l’organizzazione e l’impostazione interna della nostra azienda hanno giocato un ruolo. La nostra azienda è fatta non da interessi esterni, ma dalle persone che ci lavorano. Per cui abbiamo sempre pensato di tenere gli stipendi alti, anche perché alcuni dei nostri dipendenti hanno problemi familiari, per esempio ci sono madri separate con figli senza nessuno che le aiuti. Alzando gli stipendi, abbiamo ridotto di molto il turn over aziendale.

 

Ma il turn over non può avere anche degli aspetti positivi?

 

Dipende dal tipo di azienda. Quando questa ha un forte know how, ha bisogno di evitare la «fuga» delle persone più qualificate. E nel nostro caso è proprio così. Nel mercato in cui ci muoviamo la concorrenza è numerosa, con aziende di grandi dimensioni e competitive come prezzo. L’unica chance di successo in casi come questo è puntare sulla qualità. Per questo, in 16 anni di vita della nostra azienda, non cambiare i dipendenti è stato un vantaggio.

 

Nel frattempo avete anche fatto delle nuove assunzioni?

Di recente abbiamo assunto un ragazzo appena diplomato. Ci siamo infatti sentiti in dovere di insegnare a qualcuno il lavoro, per trasmettergli quello che avevamo imparato in tutti questi anni. E’ stata una scommessa rischiosa, ma non me ne sono pentito. A questo giovane abbiamo chiesto subito di diventare grande, perché il problema è che oggi molti 20enni sono ancora dei ragazzini. Un’altra scelta vincente dal punto di vista organizzativo è stata quella di assumere segretarie che abitavano tutte nel raggio di cinque chilometri dall’azienda. E’ un modo per ridurre il turn over, ma anche per evitare che il dipendente arrivi in ufficio già stanco dopo un’ora e mezza di traffico.

 

Nel frattempo è capitato anche che qualcuno le proponesse di vendere l’azienda?

 

Sì, e più volte. Su un milione di euro di utili annui, circa il 10-15% va in stipendi di titolare e dipendenti, e tutto il resto è reinvestito. Questo ha fatto gola a molti gruppi che ci hanno chiesto di acquistare l’azienda, e se avessi detto di sì oggi sarei a posto fino alla pensione. Invece ho rifiutato, perché quello che mi interessa è continuare a costruire le cose che ho iniziato. Non ho mai avuto il desiderio di bruciare le tappe, o di arrivare subito ai guadagni facili: un’azienda è come i figli, ed è bello che cresca lentamente. Ma se la cedessi oggi, mi priverei della soddisfazione di vederla arrivare alla maggiore età.

 

Che cosa l’ha aiutata in questi anni di successi, ma anche di difficoltà?

 

E’ stato di vitale importanza essere accompagnato da alcuni amici imprenditori associati al club Cdo Libera impresa. E’ stato grazie a loro che l’azienda ha avuto e continua ad avere questa solidità. Dopo una crescita del 25% nel 2009, di un altro 10% in più nel 2010, del 15% nei primi tre mesi del 2011 rispetto allo stesso trimestre dell’anno scorso, era facile montarsi la testa e cadere in errori che rischiavano di rovinare tutto. I miei amici al contrario mi hanno sempre aiutato a tenere desto quello che mi interessava fare, e a rimanere coi piedi per terra.

 

(Pietro Vernizzi)

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