In occasione dell’uscita del loro decimo album, “I’m With You”, Giuseppe Ciotta ripercorre la discografia del gruppo californiano. Dopo l’esordio del 1984, “Red Hot Chili Peppers”, tocca a “Freaky Styley”.

È una band diversa quella che raggiunge Detroit all’alba del 1985. Anzitutto, il chitarrista-fondatore Hillel Slovak è rientrato alla base, mentre dietro al mixer il gruppo avrebbe avuto come produttore artistico nientemeno che George Clinton (Parliament, Funkadelic): uno dei padri assoluti del funk, secondo solo a James Brown. Così, i Red Hot Chili Peppers intendevano lasciarsi alle spalle l’anonimo debut album, per fare di Freaky Styley il loro primo vero biglietto da visita per il mondo.

Nonostante tali premesse e la presenza nel disco – oltre che dello stesso Clinton – anche di artisti del calibro di Maceo Parker (leader della storica sezione fiati di James Brown), il secondo album dei Peperoncini sarà un successo parziale. Troppi i demoni che attanagliano il cantante Anthony Kiedis, gli stessi che cominciano a rosicare pezzetti d’anima anche al talentuoso chitarrista Hillel Slovak, musicista fondamentale per i primi Red Hot. Il batterista Cliff Martinez – dal canto suo – non è un santo e si gingilla sempre più coi suoi progetti, mentre il solo Flea pare segnare punti a suo favore: decide, infatti, di abbracciare l’etica straight edge di gruppi punk-rock quali Minor Treath (dalle cui ceneri gli immensi Fugazi), che prevede l’assenza di droghe e alcool, oltre che del sesso occasionale. Il buon Flea non seguirà questo modus vivendi con lo scrupolo di un monaco, ma gli basterà per non sprofondare nello stesso baratro dei suoi compagni e per rimanere – da lì a oggi – il più solare e creativo dei quattro.

Proprio il bassista è la forza motrice del disco, caratterizzato dal suo basso roccioso, fisico e saltellante, che fa di Freaky Styley l’album in assoluto più dichiaratamente funky dell’ensemble, con le influenze rock e punk relegate in un angolo. Del resto, la scelta di George Clinton in cabina di regia era dettata proprio da questa precisa volontà.
Jungle Man apre le danze, è proprio il caso di dirlo: l’aria è diversa rispetto allo statico e algido debutto. L’anima festaiola della band comincia veramente a manifestarsi; peccato per il canto impastato e senza mordente di Kiedis, prova concreta che il nostro – in quel periodo – era avvezzo impegnarsi più a distruggere che a costruire. Hollywood è una riuscita cover dei Meters, funk band nera degli anni ’60. Kiedis cambia testo e titolo (l’originale era Africa) per descrivere ciò che meglio conosce: la città degli angeli. American ghost dance ha i fiati di Parker sugli scudi, per il resto è trascurabile.


If you want me to stay
è la seconda cover e uno dei pezzi forti: Sly & The Family Stone sono il colosso musicale della Summer of Love di Woodstock con cui i quattro vogliono arditamente confrontarsi. Parrebbe un suicidio – soprattutto per la scarsa vocalità di Kiedis a confronto col soul intriso di funk di Sly – ma Clinton riuscirà a toccare le giuste corde e, come per incanto, Anthony sembra addirittura un vero cantante! Nevermind viene ripresa dal mitico primo demo del gruppo: una scheggia impazzita, uno dei pochi momenti al calor bianco dell’album.

Fin qui, l’impressione generale è buona: il chitarrismo magnetico di Slovak – dalle sonorità squisitamente funky – rappresenta la soluzione di continuità rispetto allo scialbo esordio, mentre le canzoni paiono meno abbozzate. Clinton – infatti – aveva preteso di curarne la pre-produzione proprio nel suo studio personale, ospitando in casa la band per tenerla sott’occhio e sviluppare le idee prima di fermarle agli United Sound Studios di Detroit.

Arriva la title-track e un vortice ipnotico – creato dal giro di basso a spirale di Flea – trasforma questo semi-strumentale in un mantra, talmente efficace che la band lo userà per anni come apertura dei loro concerti. Blackeyed blonde sancisce quanto scritto sopra: l’imprescindibile Slovak sciorina riff sfiziosi, che rimbalzano dal rock al funky fino al punk, creando un linguaggio musicale che – col basso di Flea a suonare la carica – diverrà il marchio di fabbrica del gruppo. È un pezzo così originale che i Red Hot lo terranno regolarmente in scaletta per anni, almeno fino al tour del 2001.

Resta da segnalare il testo di The brothers cup, davvero efficace: parla delle “tazzine della fratellanza” che Anthony e Flea attaccarono sulle spalle dei loro giubbotti di pelle, durante il viaggio d’iniziazione in Europa che il padre di Kiedis gli regalò dopo il liceo, ben prima che i Red Hot Chili Peppers si manifestassero nelle loro menti. La musica verte di nuovo verso un convincente funky bianco. Al contrario, il testo e il censuratissimo video (lo trovate nel dvd What Hits!?) di Catholic school girls rule meriterebbero l’accusa di sessismo: in futuro, Kiedis troverà una via più intima e poetica per parlare delle donne in modo consono alla loro connaturata bellezza. La musica – invece – segue il solco vincente di Blackeyed blonde, giungendo fino alla divertente Yertle the turle: un altro evergreen nei concerti dei quattro, con un incedere claudicante che ne caratterizza il groove sghembo.

L’aneddoto più strambo di quel periodo è legato a questa canzone: nell’intro, nell’intermezzo e alla fine, si può sentire una strana voce blaterare qualcosa. Ebbene, è la voce di uno spacciatore indispettito dai debiti accumulati dalla band a Detroit, che si catapultò in studio per spaccar loro la faccia. Il saggio George Clinton – facendo di necessità virtù – mise una pietra sopra all’intera faccenda, solleticando l’ego del losco figuro e facendolo “comparire” nel pezzo in cambio dell’azzeramento delle pendenze con la scellerata band. Ci riuscì! I “15 minuti” di notorietà cari ad Andy Warhol sono sempre la chiave di volta…

Nell’edizione rimasterizzata dell’album, uscita nel 2003, spiccano un paio di chicche: ancora qualche brano dall’ispiratissimo primo demo dei nostri, la versione estesa della canzone Freaky Styley – ancor più tribale, ma ai tempi tagliata per esigenze di editing – e, vero gioiello funk-rock (con Slovak che s’inventa sonorità tali da avere un’influenza decisiva su John Frusciante), l’inedita Millionaires against hunger. Qui, un preveggente Anthony Kiedis dissacra quegli artisti imbolsiti che sfruttano i grandi eventi di beneficenza (il Live AID è proprio di quegli anni) per rifarsi un’immagine e, soprattutto, il portafogli. Passerà, invece, ancora tantissimo tempo prima che i Peperoncini abbiano un’immagine riconosciuta e dei guadagni proporzionali ai loro sacrifici: nonostante oggi suoni datato, il loro secondo album apriva davvero delle prospettive serie al gruppo; purtroppo, quegli stessi demoni che ne avevano ostacolato la realizzazione sarebbero giunti a reclamare un prezzo ben più alto.

(Giuseppe Ciotta)