Un nuovo disco dei Coldplay è nel panorama musicale odierno il più classico dei ritorni obbligati, è l’inveterata deontologia della release a scadenza, con lo stesso impatto dell’intervento di prammatica dell’esperto meteo durante i piccoli e grandi fenomeni atmosferici stagionali. L’edificante rassicurazione settimanale, la voce del saggio opinionista dai toni garbati che ti sa conquistare by-passando qualsiasi ombra di contenuto provocatorio e originale. Quel che si sa è che si è trattato di un ritorno pianificato non senza svariate incertezze da parte dei membri del gruppo prima della decisione definitiva in tal senso. Il ritorno di una band giunta probabilmente al limite delle proprie istanza creative e perciò un ritorno più ancora che pianificato, forse ordito e perpetrato.

Occorre intendersi. Qui non si parla di un incauto avventore del paesaggio globale delle sette note, ma di un bravo songwriter di questi anni, quel Chris Martin che dopo aver concepito con “Parachutes” un abbozzo di ensemble sbilanciato su un aggiramento dei Radiohead era “OK Computer” verso un territorio più esangue e svenevole (paradigmatico in questo senso il singolo tormentone “Trouble”), ha dirottato la sua creatura verso aree più ardite operando audaci e scaltre sintesi dei suoni dei due decenni antecedenti in “A Rush of  Blood To The Head”, ora sferzanti e irresistibili (“Politik”), ora tra il sinuoso e lo stralunato (“Daylight”), per poi spostare ulteriormente il baricentro verso un’ipotesi di rilettura di anni ’70 e ’80 in “X&Y” e “Viva la Vida and Death and All His Friends”. Con questi due album la scrittura spigliata di Martin ora agile ora introspettiva, rivestita dalle galassie soniche di un Brian Eno sempre più inserito nel progetto, raggiunge livelli di tutto rispetto situandosi in un bel limbo tra quello del consumato manierista e quello del piccolo genio formato granulare che lambisce la scrittura dei grandi del rock addomesticandola ad uso e consumo del gusto più fragile e volubile dei tempi recenti.

Martin è un po’ Elton John, un po’ un Joel più spiritato, uno scafato collettore di suggestioni pronto a raccogliere schegge sonore dalla sfrecciante scia di grandi nomi quali U2, Rush anni ’80, Genesis e Pink Floyd.  “What If”, “Talk”, X&Y”, “Lost” e “Death and All His Friends” sono tra i migliori esempi dell’agilità e destrezza di stesura del biondo frontman della band. Buone, ottime, talora grandi canzoni senza che mai si possa seriamente gridare al capolavoro.
Insomma un solido songwriter che in anni recenti dona pure un paio di bei brani all’ultima poco fortunata sortita di Natalie Imbruglia.
Un songwriting forse giunto al suo personalissimo limite fisiologico, se è vero che l’abilità di Mr. Paltrow sembra essere oggi confinata in netta prevalenza a una semplice unione di punti come nella più elementare risoluzione enigmistica.

Così questo nuovo lavoro – visto nel suo complesso – appare più come l’estremo tentativo di assemblaggio di brandelli del sound tipico del gruppo, ammorbidito e accomodato sulle confortevoli coordinate di certo mainstream pop-rock.  Un suono ancora presente, riconoscibile e tuttavia incanalato con grande senso tattico verso una lenta spersonalizzazione tanto allettante quanto remunerativa in un approccio complessivo che incarna al meglio la fugacità del facile brivido. 
Martin è scrittore tuttora abile, ma in missione per conto della più spietata espressione “di tendenza”. In questo senso è senz’altro un album forte. Forte dell’astuta direzione di Eno e dei consolidati espedienti sonori della band, ricco di spazialità e grande sensibilità nell’uso dei riverberi su chitarre e chorus.
Nelle parole di Chris Martin le liriche di questo album rappresentano un concept che ritrae le vicissitudini di una storia d’amore a lieto fine (tra Mylo e Xyloto).

Il disco si apre – dopo la breve intro atmosferica che intitola il lavoro – con lo smaliziato twist-pop elettronico di “Hurts Like Heaven”, bamboleggiante e seduttore quanto basta, offrendo un primo indizio dell’impostazione base del lavoro che ricorre spesso all’artificio “para-industrial” oggi molto in voga negli album di chi conta nello scenario delle hit parade mondiali. In questo alveo, il tran tran radiofonico estivo era stato segnato dall’imperversare della ben più furba e dozzinale “Every Teardrop is a Waterfall”, ultimo prototipo di quel genere di canzoni (come la Giorgia di “Il Mio Giorno Migliore”) da consumarsi preferibilmente entro la data del successivo solstizio.

A favore dell’album vanno annoverate due canzoni bellissime reminiscenti del miglior Martin.  Il secondo singolo – uscito nello scorso settembre – “Paradise”, suadente aria sulle orme di “Viva la Vida” pennellato da piano e archi che vibrano gioiosi e da larghi fendenti corali, e la riflessiva ballad “Up in Flames”, densa e pastosa, giocata con grande maestria su un’interpretazione vocale che cesella malinconici chiaroscuri autunnali. 

A questi si aggiunge il singolo di fresca uscita “Princess of China”, florido e cadenzato inno da chart che rivela un innegabile appeal esaltato dalla produzione perentoria di Eno e dalla vocalità smorfiosa e ye-ye di Rihanna, che qui si cimenta forse (e finalmente) nella prima bella canzone della propria carriera.

Il resto è un abile barcamenarsi tra esercizi di stile e retorica tra ballad di puro protocollo (nessuna tra “Us Against The World”, “U.F.O.” e la conclusiva “Up With The Birds” si discosta dai soliti cliché) ed espressioni un po’consunte di epica cavalcata rock (appena dignitosa “Charlie Brown”, così come “Major Minus”,  totalmente risaputa “Don’t Let It Break Your Heart”).

(Alessandro Berni)