Intervista esclusiva a Roberta Sammarelli e Alberto Ferrari dei Verdena – alla fine della prima trance del trionfale tour di Wow presso i MercatiGenerali di Catania. A cura di Giuseppe Ciotta.
Qual è il bilancio della prima parte del tour di “Wow”? Impressioni? Aneddoti?
A.: In realtà, non c’è mai molto da dire. Mi hanno chiesto di scrivere qualcosa sulla tournèe, ma non riesco a scrivere niente perché – secondo me – non succede mai nulla finché non si suona. Come se la giornata intorno fosse nera, dopodiché ci sono quelle due ore in cui si suona e diventa bianca. Aneddoti speciali ce ne sarebbero, ma son troppo speciali per raccontarli… Meglio non raccontarli, comunque (risa, nda)!
R.: Tipo le cose che succedono nei day-off tra una data e l’altra… Le “saune” qui in giro per la Sicilia (sorride, nda)… In generale, questo è il tour che sta andando meglio, sia a livello d’affluenza di pubblico, sia per come stiamo tra noi sul palco e fuori. Mi sembra che abbiamo quasi raggiunto una sorta di stabilità; dico quasi perché son convinta che noi una stabilità vera non la raggiungeremo mai, perché siam sempre sull’orlo: una serata può andar benissimo come malissimo e la differenza può farla anche una cosa molto piccola, dato che non tutto è in mano nostra.
Dipende anche dal pubblico, dal posto, dai problemi tecnici che purtroppo – spesso – ci sono, perché la maggior parte dei locali non è costruita per farci musica dal vivo e non ha una buona acustica. Però, comunque, in questa prima parte di tournèe mi son molto divertita: è stato interessante.
Mentre i rumori del soundcheck rimbombano e ci sovrastano, Alberto si copre gola e bocca con una sciarpa: il fatto che abbia sulle spalle già decine di date; l’umidità e il caldo siculi; l’aria condizionata del furgone e dei locali, alternata al tepore; insomma, tutto ciò dà del filo da torcere alla sua ugola che – con Wow – non si limita più al canto stentoreo o urlato, ma tocca armonie prima inedite, saltando dal falsetto al fraseggio più intricato, dal grugnito alla vocalità sommessa o sussurrata: una delle tante cifre stilistiche dell’ultimo doppio album dei bergamaschi è proprio la decisiva crescita di Alberto come cantante.
Cosa farete, a livello individuale e come band, dopo questa prima parte di tour?
R.: Io e lui, di sicuro, faremo la stessa cosa: prenderci 5/6 giorni di vacanza qui in Sicilia. Ci siamo già organizzati: andremo nella zona nord-ovest – nel trapanese – come San Vito lo Capo, da quelle parti lì. Dopodiché, non ci rimane comunque molto tempo tra questa tournèe e la prossima, perché già tra un mese abbiamo le prime date. Quindi, giusto una settimana per riposarci e staccare un attimo. Poi – appena tornati a casa – riprenderemo subito con le prove, anche perché vogliamo ovviamente cercare di proporre alcuni pezzi diversi. Quindi, rientreremo in sala per riprovare pezzi che non suoniamo ormai da tanto tempo e cercare di fare delle scalette più varie. Insomma, subito al lavoro!
Le canzoni di “Wow” sono piccole sinfonie sonore condensate in pochi minuti, un po’ come facevano i Beach Boys. Com’è ricreare tutto questo dal vivo?
A.: Abbastanza facile – in fondo – anche perché abbiamo preso una persona in più ed era necessario anche per gli altri dischi, non solo per questo. Noi – quando scriviamo i pezzi – cerchiamo sempre di farlo in modo tale che dal vivo siano fattibili.
Quindi i suoni son praticamente identici al disco; usiamo la stessa impostazione: qualsiasi microfono, dalla batteria al resto, è lo stesso adoperato in studio per realizzare l’album. Penso che tutto esca molto simile fuori, fedele al disco; sul palco, no (fa una smorfia, nda)! Ma fuori, mi dicono risulti essere tutto abbastanza fedele ai suoni del lavoro.
R.: Per ora, abbiamo deciso di riproporre più fedelmente le canzoni rispetto al disco. Poi – ovviamente – questa era la prima parte del tour, chi lo sa… In futuro vedremo, magari proporremo delle diverse versioni di alcuni pezzi. Già una c’è: Canzone ostinata. È l’unica che proponiamo in versione diversa dal vivo, perché riproporla come quella del disco non ci riusciva bene, non c’è piaciuta tanto.
A.: Sì, magari anche certe divagazioni tipo quella di Loniterp (sempre da “Wow”, nda), con quelle voci nel finale: cose impossibile da rifare. Alla fine, abbiamo trovato questi suoni che fan sembrare che ci siano dei cori, mentre invece si tratta di un mellotron (strumento a tastiera dal suono triste ed evocativo, nda). Dà un’altra sensazione, ma non è molto distante. Lo sentirai stasera, meglio non saprei spiegartelo!
Per una live band come i Verdena subentra mai una sorta d’“intossicazione da strada”? Finisce il tour, ti ritrovi a casa… pensate mai: “E ora che faccio?!”?
R.: A me, sempre! Io, dopo le date, passo delle giornate terribili! Cerco di organizzarmi prima per non restare da sola, perché entro in casa, giù la valigia e la domanda arriva: “ E adesso?!” (risate, nda). Non riesci a rilassarti subito, perché – quando sei in tour – l’adrenalina è sempre in circolo e quindi – anche volendo – sebbene il relax sia qualcosa cui ambisci, poi quando ce l’hai non riesci subito ad accettarlo. È una cosa strana. Io devo stare a casa almeno 3/4 giorni per riuscire veramente a rilassarmi e a star bene, perché i primi due giorni sto proprio male, cioè: sono a casa a far niente, a rilassarmi… Ci sto malissimo (sorride, nda)!
A.: Sì, è strano. È una specie di droga l’adrenalina, penso. Se ne assumi tutti i giorni – in gran quantità – arrivi che quando non hai più come sfogarla, allora tu ti senta un po’ “costretto”, insomma. Ma capita, appunto, i primi 2/3 giorni a casa. Poi, vado subito in sala prove, il prima possibile in questi casi. Ti viene istintivo far subito qualcosa: personalmente, non riesco a star troppo fermo.
Dopo gli anni ’90 – coi CSI e il loro giro (Marlene Kuntz su tutti), la Mescal (con Afterhours, Massimo Volume…), voi stessi – c’era stata un’inflessione nel rock indipendente italiano, fino alle band de “La Tempesta Dischi” (Tre Allegri Ragazzi Morti, Zen Circus, Il Teatro degli Orrori…). Che ne pensate di questi vostri colleghi?
R.: Sono tutti ottimi gruppi e ce ne sono tanti in Italia, non solo all’interno de La Tempesta.
A.: Il Teatro degli Orrori sono quelli che abbiamo approfondito di più, sinceramente.
R.: La Tempesta è una realtà che – col suo operato – ha portato un po’ a puntare i riflettori su di sé, quindi per questo se ne parla tanto. Però – ad esempio – noi siamo molto affezionati alla scena della nostra città, che è Bergamo, e ovviamente sono i gruppi bergamaschi quelli che noi conosciamo meglio, perché alla fine – oltre ad esser nostri amici – son quelli che andiamo a vedere più spesso dal vivo. I gruppi de La Tempesta sono grandissimi ma – a parte aver diviso il Palco coi T.A.R.M. e Il Teatro degli Orrori – i concerti che vediamo più spesso son quelli dei gruppi della nostra città, in cui c’è una bellissima scena fatta di band molto diverse fra loro e questa è una cosa molto interessante. Suonano tutte generi molto eterogenei fra loro e, quando possiamo, li portiamo spesso in tour con noi.
Nel 2004 – durante la data catanese per “Il suicidio dei samurai” – parlammo del fatto che i cosiddetti “terzi”, coloro che rimettono mano al lavoro di una band (produttori o fonici), spesso lo sviliscono. Allora, tu Alberto non eri soddisfatto del mastering di quel vostro 3° album. Da quel momento, fai tutto da solo. Prima “Requiem” e ora “Wow” ti pongono, ormai, come produttore artistico e fonico consolidato. Hai mai pensato, adesso, di farlo per altri gruppi?
A.: Sì, lo immagino più che altro (di questi giorni la notizia che curerà il 2° album dei Criminal Jokers, talentuoso post-punk toscano di cui siamo stati fra i primi ad occuparci, nda). Purtroppo non c’è mai il tempo per far niente, siamo sempre molto impegnati e quando finiamo le tournèe voglio subito registrare. Quindi, non ho molto spazio. Però, se dovesse per caso capitare, lo farei. Qualsiasi cosa mi abbiano chiesto, finora, l’ho sempre fatta… O forse no, non tutto, a qualcosa ho rinunciato… Ho registrato i demo per dei ragazzi nella nostra valle – roba molto sperimentale – oppure il disco dei Betoschi (side project dei fratelli Ferrari – l’altro è Luca, il batterista – con un gruppo d’amici, nda), non so se l’hai sentito…
Sì, qualcosa: mi siete sembrati una sorta di Captain Beefheart all’italiana…
A.: Che percezione (ridiamo, nda)!
Escludendo “Wow” per ragioni d’attualità, vi va di dirmi dei semplici aggettivi per ogni vostro album – da “Verdena” (1999) fino a “Requiem” (2007) – per descriverlo non solo musicalmente, ma anche – con le vostre impressioni del periodo – umanamente?
A.: Ripensando all’omonimo, direi ROOOCK (divertito, nda)…
R.: Sì: ROOOCK (ridiamo, nda)!
A.: Quel disco non è uscito così rock, però – insomma – le canzoni erano molto rock, secondo me. Ero preso col rock. È senza testi, anche! I testi, al tempo, non m’interessavano per niente: assolutamente zero. È un disco molto “sonoro” (prodotto dall’ex CSI Giorgio Canali, nda), fondamentalmente mi piace.
R.: È molto d’impatto. Anche molto adolescenziale, volendo.
A.: Sì, mi ricorda quand’ero piccolo, fondamentalmente (i Verdena esordirono giovanissimi, nda). Mi riconosco quando lo riascolto, mi rivedo a diciotto anni.
“Solo un grande sasso” (2° lavoro – del 2001 – prodotto da Manuel Agnelli degli Afterhours, nda)?
A.: Motorpsycho (band norvegese che non poco influenzò i nostri, nda)!
R.: Un po’ esagerato, a tratti.
A.: Sì, ci stava: era una jam – in fondo – Solo un grande sasso. Lo vedo “jammoso”, con i testi ancora più brutti del primo album, secondo me. Forse è stato il periodo in cui m’interessava ancora di meno il testo, non so per quale motivo, ma potevo farli veramente meglio. Cantavo anche in modo molto diverso.
“Il suicidio dei samurai”, a mio modesto parere, contiene forse i tuoi testi più belli…
A.: Sì. Lì ho iniziato a interessarmi ai testi, invece. È cambiato tutto – così – ha dato una marcia in più, assolutamente. Il mio testo preferito in assoluto è nell’Elefante e.p. (singolo tratto dall’album, con tracce inedite, nda): si chiama Mu, il pezzo. Secondo me, è il testo più bello che io abbia scritto, ancora fino adesso: non riesco a superare quel livello.
R.: Di quel periodo, sinceramente, non ricordo molto: lì c’è un po’ un buco, per me, nel 2004. Ho più ricordi del primo e del secondo.
A.: È un disco registrato molto velocemente.
Un disco anni ’90 nei suoni: ricordo che era quello che volevi…
A.: Sì, col mio mastering sì! Sarebbe uscito proprio così! Ma invece fu completamente tolta quella cosa, che invece m’interessava tanto. Va bene, lasciamo stare queste cose qui (sorride amaramente, nda)…
R.: Il suicidio dei samurai è stato l’unico disco in cui eravamo in quattro – anziché tre – anche in fase di composizione, perché c’era Fidel (Fogaroli, alle tastiere, nda).
“Requiem”?
R.: Abbastanza recente, anche se son già passati quattro anni! Cioè, mi ci rivedo come se fosse ieri.
A.: Per me, è il 1° disco bello che abbiamo fatto (ride, nda)! Nella sua interezza, mi piace ancora molto riascoltarlo. Se sento Il suicidio… continuo a lamentarmi qua e là e passo. È pazzesco, anche per tutti i dischi prima! Requiem lo ascolto come se fosse una cosa molto facile per le mie orecchie, come se mi appartenesse molto, di brutto! Ed è la stessa cosa, lo stesso effetto, che mi fa Wow riascoltandolo. È come se appartenessero a questa nostra “seconda parte”.
È bello chiamarla così, quando si è appena trentenni…
A.: Esatto (sorride, nda)!
Un unicum nel panorama italiano, dove la norma è realizzarsi artisticamente quasi sempre dopo i trent’anni, al contrario del mondo angloamericano dove – a quell’età – di solito hai già un cammino discografico rilevante, proprio come i Verdena, che saluto con piacere e ringrazio. Ancora una volta – come quest’intervista e alcuni stralci di essa ripresi in video e linkati su queste pagine testimoniano – decisamente lontani da quell’immagine dura, laconica e scostante che molta stampa dà di loro: semplicemente, hanno da sempre deciso di seguire il loro cammino incuranti di mode e tendenze; delle critiche banali che gli son state mosse per anni e che ora molti si rimangiano; dei circoli in delle metropoli, rimanendo a far musica cullati dalla loro valle fra i monti bergamaschi, ma non nascosti o non aperti al confronto. Presto ne riparleremo, con la recensione della deluxe edition di Wow (con tanto di 1° – attesissimo – dvd ufficiale) e della loro recentissima data al Leoncavallo di Milano.