Potremmo cominciare dalla fine, per introdurre il debut album dei palermitani Granpa. Nelle note di copertina di “In Fast We Trust” sono ringraziati i Kyuss, padri dello stoner rock, e l’infaticabile Jack White, alla guida – da tempi non sospetti – del revival rock/blues più puro e stentoreo. Aggiungete l’hard rock dei seventies (Led Zeppelin, Black Sabbath) e un po’ di grunge e troverete la musica dei Granpa proprio lì, nel mezzo: vorticosi e ipnotici giri di chitarra elettrica e batteria secca e squassante; un taglio da rock delle origini fresco ed efficace nel riprendere la migliore tradizione angloamericana, personalizzandola in modo credibile e forse inedito, qui in Italia; una voce roca e ispirata che – nell’attacco di Don’t Lie – pare quasi un Dave Grohl finalmente a suo agio anche dietro al microfono, mentre nel resto del cd si erge come un Mark Arm (Mudhoney) meno sguaiato, il tutto con una dizione inglese e una personalità convincenti. Si tratta di Gianluca Bartolo (chitarrista/cantante), l’altra metà de Il Pan del Diavolo, duo anch’esso palermitano, a confermare l’assoluto stato di grazia della scena musicale nel capoluogo siciliano.

Forti di una rodata fama come live band (già opening act per 24 Grana, Le Luci della Centrale Elettrica e Super Elastic Bubble Plastic), il trio (con Daniele Pillitteri alla batteria e Luca Macaluso alla chitarra) crea un lavoro radiofonicamente scorretto – coi suoni aperti e “sparati in faccia”(l’omonima Granpa) – come se sentissi la band ripresa nella sua sala prove, invece che in studio: l’album è stato – infatti – registrato su nastro e in presa diretta, come si faceva una volta. Ciò a confermare la sanguigna genuinità della proposta, in linea con la tradizione del rock chitarristico anni Sessanta e Settanta (“Was right”) e con una peculiare attenzione al sound e agli arrangiamenti, curati e spesso imprevedibili.

Hanno già conquistato la stampa specializzata italiana (Blow Up, Rockerilla, Jam, Il Mucchio, Rumore) con questo primo album, fortunatamente agganciato alla dimensione live cui la band si rapporta, coi suoi ritmi coinvolgenti di puro classic rock e senza scordare le cascate torrenziali di riff cari alla lezione grunge (M.P.H.F., con un motivo chitarristicodegno dei Soundgarden).

Non c’è il basso, sostituito da una seconda chitarra (baritono) che si muove a volte come un monolitico mantra, altre come una scheggia impazzita: ascoltando il lavoro in cuffia, si scopriranno intrecci di chitarre davvero squisiti. Ci sono momenti di aperture melodiche (Five o’clock, una sorta di Allman Brothers catapultati nella Seattle dei nineties) e scorribande strumentali (Starships, che farebbe felice Jack White), il tutto senza cadute di tono.

Meno spigolosi dei Blues Explosion di Jon Spencer e più alternativi dei White Stripes, meno cupi dei Kyuss (Standin’by) e più punk dei Led Zeppelin: i critici vezzosi, avvezzi a spellare i gatti, accuserebbero il disco di “derivazione” o “rifacimento” di qualcosa che è già stato fatto prima e meglio all’estero, indicando come riferimenti troppo sfacciati alcuni momenti (come l’incipit vocale di “Burn’em out”, praticamente identico a quello di “Green machine” dei Kyuss).

Chi scrive preferisce buttar giù guide all’ascolto dei dischi che lo convincono, lasciandone all’ascoltatore il giudizio complessivo. Il mio, assolutamente personale, è che – in un genere che si rifà alla tradizione blues roots rock – sia naturale riprendere una lezione e personalizzarla, riattualizzandola ciascuno a suo modo, secondo la propria spontanea sensibilità. In casi come questo, l’originalità sta proprio qui: nel riuscire a diventare un piccolo anello dell’infinita collana del canone rock/blues, dove tutti – dai tempi di Robert Johnson, passando per Jimmy Page, fino ad oggi – prendono qualcosa in prestito dai loro predecessori, per trasfigurarla e farla risplendere di una nuova luce, la propria.

Ebbene, i Granpa ci riescono alla grande: suonano spontanei (vi consiglio caldamente di vederli dal vivo) e assolutamente rispettosi della tradizione cui si sentono (e si sente!) d’appartenere e che oggi – anche qui da noi – ha dei degni rappresentanti, piccanti come il divertissement che hanno nascosto alcuni minuti dopo l’ultima, devastante, traccia del disco (El nino).

(Giuseppe Ciotta)