A 22 anni non ancora compiuti Chiara Canzian può a pieno diritto annoverarsi tra i nomi della musica per i quali l’appellativo di artista non sia frutto di un’intrusione disinvolta nella spesso dimenticata dimensione sacrale della parola in questione. In tempi confusi e di difficile – se non ambigua – lettura come quelli in corso, la cantautrice veneta – due volte figlia d’arte – mostra di essere in cammino su una strada con lo scopo preciso di stringere un patto di vero e fraterno amore con la parola arte come parola abitata, investigata, vissuta in quella indistinta e misteriosa zona di confine tra il cervello, le viscere e il cuore.
Un patto di sangue – come suggerisce il titolo del suo recente secondo bellissimo album – sorprendente per il suo essere stato concepito da una ragazza ventunenne in un’epoca dove la musica è rigida suddivisione in aree d’egemonia e una musicista della sua età è vista con sospetto e diffidenza quando non omologata alle due forme differenti ma speculari dello show-biz delle sette note. O ci si sistema nell’alveo dorato dello star-system vorace dei piani alte delle classifiche o si cerca di essere iniziati al cantautorato di certi percorsi guidati verso sentieri raffinati e dal lessico forbito.
Fisico da scricciolo, viso soave e grandi occhi da cerbiatta, la Canzian che viene dall’aver scontato una prima esperienza dove si è tentato frettolosamente di collocarla in un’isola di subalternità a modelli musicali in voga e ben più navigati, ha optato per quello che oggi – a livello italiano – viene considerato “il terzo settore musicale”.
Il cantautorato del dolore di estrazione americana che fa i conti con i pezzi d’inferno della vita di tutti i giorni, musicalmente nutrito di un rock’n’roll giocato su tempi mid-slow cucinati a fuoco lento e pronti a virare in esplosioni di inaudita intensità emotiva.
Nell’attuale panorama musicale nazionale questa è terra di nessuno. Ed è terra di nessuno – indizio di uno status di borderline nel music business – l’elaborazione dei piccoli e grandi inferni quotidiani quale strada più leale e autentica per trovare ciò che inferno non è e tenerselo stretto, caro, essenziale. L’essenziale senza facili scorciatoie.
Il percorso offerto in questo splendido, vibrante concerto è schietto e chirurgico. All’interno dell’approccio scelto la Canzian può permettersi persino di bypassare il brano di lancio dell’album “E Ti Sento”, episodio minore se raffrontato ai vertici del lavoro, per dirottare il proprio excursus musicale sui brani d’impeto. Ecco in apertura una bellissima “Senza Se” con la nostra a giocare e a ferire con l’avvincente ostinato del chorus accompagnando il suono della band con la chitarra acustica. “Viene e Va” prosegue su questa linea accentuando nelle strofe un sentore cosmico che si sviluppa e si declina nella liquida e irrequieta atmosfera di “Tra La Gente”.
Ma è con “Il Mio Sangue”, superlativa title track dell’ultimo album – preceduta da un’ovazione del pubblico al suo annuncio – che l’arte della cantautrice veneta esplode con la forza dirompente di un diluvio di stelle incandescenti. Lenta, epica, inesorabile, Chiara – concentrata sul solo microfono – trascina nell’interpretazione fascinosi echi di canto jazzato, un respiro di salmodia, vibrazioni possenti e modulazioni serpentine. È come se un Buckley in un accesso di lucida follia si fosse messo in viaggio verso lidi mediterranei o verso i più riposti e puri paesaggi nordestini alla ricerca del proprio omologo femminile. E la vocalità dell’artista veneta risalta sempre più sicura tra fioriture e gestione del vibrato formando un sound già unico, riconoscibile, inconsueto come quello di un grande chitarrista o tastierista. Il riff vocale ricorrente va a chiudere questo memorabile slow r’n’r uscito dalla penna ispirata di questa ragazza figlia del suo tempo, come tutti noi, tra realtà virtuali e socializzazione via network ma con una curiosità appassionata che contiene e trascende queste espressioni verso una realtà di carne e sangue.
In questo autentico “centerpiece” emerge la band, smagliante e precisa a sostenere l’ideale incastro della rappresentazione. Il basso nervoso e tellurico di Andrea Lombardini, la batteria rutilante e famelica di Phil Mer (già encomiabile motore ritmico di Malika Ayane e degli ultimi Pooh) e la chitarra variegata, ora sferragliante ora narrativa di Alberto Milani.
Da questo momento in avanti è un’apoteosi solo smussata a tratti da qualche fisiologico calo di tensione. Così a una resa eccellente della amosiana “Cornflake Girl” che alterna le modulazioni tipiche del chorus ad un piglio scorbutico e punk nelle strofe, fa da contraltare una “Prova a Dire il Mio Nome” piuttosto anonima in questa veste spogliata della sua naturale declinazione a largo respiro.
Più efficace una “Segui ciò che sai di Me” accompagnata dal solo basso di Lombardini, ma con una interpretazione veemente che sembra appoggiarsi sul fantasma di una band al completo risultando inadeguata al contesto. All’interno di questo set acustico la Canzian, sola alla chitarra, esibisce una delle altre gemme tratte da “Il Mio Sangue”, la melodia svettante di “Che Colpa Avevo Io” autentico pezzo di bravura, dalla vocalità febbrile ed espressiva.
La mancanza di alcuni espisodi dell’ultimo album è motivata dall’inclusione di tre brani nuovi di zecca che rappresentano l’altro vertice dello show. Preceduti da una magistrale e sentita cover di “Everybody Here Wants You” di Buckley, scorrono “Piede”, sorniona e sottopelle e una straordinaria “Bianca Luna”, piece breve ma intensamente caustica tra riff reminiscenti dei Blue Oyster Cult di “Reaper” e un incedere vocale maligno giostrato con vigile ironia.
Il terzo e ultimo inedito “Abbastanza” è un sequel stilistico dalla paradossale e schizoide “Inverno e Primavera” di cui porta alle estreme conseguenze il soffio doloroso e il senso di ricerca e di definizione affettiva, il tutto in un caleidoscopio di stop and go e abrasivi crescendo. A chiudere il set regolare una “Vertigini” che sconta il confronto con il capolavoro suo quasi omologo posto all’inizio dell’album e tuttavia molto ben condotta tra esplosione di riff, vocalità autorevole e finale strumentale con un eccellente Milani a fraseggiare incontenibile.
Due bis, due ultime gemme. Chiara, ancora da sola alla acustica, declina con grazia umile e limpida la ballad “Scrivi d’oro”, per terminare insieme alla band con la buckleyana “Lover, You Should’ve Come Over “ destabilizzante per intensità di interpretazione portata allo sfinimento con la nostra che termina la performance inginocchiandosi.
Alla fine di questa ora e mezza applausi calorosi da un pubblico spesso rimasto attonito e basito dalla proposta fuori da schemi, artifici e cartine tornasole della Canzian, ed una sorta di ammonimento.
A chi ha cominciato a seguirla da questo album, la responsabilità di non chiudere la porta. A chi ha intravisto un germe di interesse nel leggere quest’articolo sull’ancora fresca opera di questa artista, il caldo suggerimento di dare una direzione precisa a questa curiosità e di conoscerla a fondo.
(Alessandro Berni)