“La ricerca del padre del figlio di Noè”. Con questa simpatica battuta la professoressa Venanzi, dell’Università di Roma 3, aveva definito la perizia del valore delle quote di Banca d’Italia, realizzata dalla stessa e fatta credere come frutto del lavoro di un comitato di gran saggi (i quali, a onor del vero, avevano rifiutato di firmare il documento). In effetti, lo scopo del documento era quello di giustificare una scelta del governo Letta di cedere, a pieno titolo, la proprietà delle quote a soggetti privati che già ne erano titolari ma in forma precaria, in violazione della legge pro tempore vigente al 31/12.
Sulla base di tale perizia, i soci – Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps, Generali, Unipol, Bnp e Allianz, per citarne alcuni – hanno “volontariamente” proceduto a una rivalutazione in bilancio. Nessun obbligo, ma una scelta, così come una scelta è l’utilizzo della “agevolazione” di una tassazione ridotta rispetto a quella ordinaria. Ora il Governo Renzi – forse per battere sul tema Grillo – ha deciso che lo Stato non può permettersi troppe agevolazioni fiscali e intende togliere l’aliquota del 12% su un reddito di natura finanziaria e non industriale, allo stesso modo con cui ritiene di aumentare il prelievo sui ricavi finanziari dei cittadini che passerà dal 20% al 26%.
Che le banche, in particolare, si lamentino dell’aumento della tassazione è normale: ognuno di noi ritiene che il proprio contributo fiscale sia già troppo elevato e, quando la scure cade sul suo capo, invoca ad alta voce la grazia. Ma non sembra adeguata l’argomentazione circa una sorta di tradimento da parte del governo: alla fine le stesse venderanno, e se vogliono possono farlo subito alla stessa Banca d’Italia, a un prezzo che stabiliranno e incasseranno poco meno di 6 miliardi. Le tasse, ovviamente, saranno una parte – ora maggiore di quanto ipotizzato a dicembre, ma sempre e solo una parte – di un ricavo inaspettato e non dovuto.
Perché il governo, nell’aumentare l’aliquota, ha implicitamente confermato – forse rafforzato – l’abuso commesso, la rapina del secolo, la truffa di Stato: l’esproprio del patrimonio reale (fra cui 80 miliardi in oro) in capo a Banca d’Italia, che dai cittadini italiani è stato assegnato a soggetti privati per un piatto di lenticchie (anche 2 miliardi di imposte sono solo il 2,5% del valore delle riserve auree). Allora perché gridare al tradimento degli impegni assunti, se apparentemente gli stessi sostanzialmente sono rimasti?
Ecco allora ritornare il dubbio dell’esistenza di un pactum sceleris fra loro e il governo Letta, che Renzi non vuole onorare: il ruolo degli attuali soci è solo quello di un portage, vale a dire l’interposizione fittizia di un acquirente per non svelare quello finale. L’operazione è meramente finanziaria, e quelli apparenti sono intermediari che beneficiano solo di una quota pattuita e risultano fittiziamente intestatari dei diritti associati. Le banche stanno eseguendo il compito di togliere dalle mani dello Stato le riserve auree, ma non per rimanerne titolari, ma per passarle ad altri – che non conosciamo – per evitare che le ambizioni anti-euro possano in futuro avere un seppur minimo fondamento.