La guerra entra nel sesto anno, ma in America rientra soprattutto in campagna elettorale. Il quinto anniversario dell’invasione dell’Iraq ha riportato sotto i riflettori negli Stati Uniti un conflitto che negli ultimi mesi era stato in qualche modo “dimenticato”: la copertura della guerra in Iraq da parte dei media americani, secondo alcune stime, dall’estate scorsa si è per esempio ridotta dell’80%.
Il motivo è semplice, e anche gli oppositori della guerra negli Usa sono stati costretti negli ultimi tempi ad ammetterlo: da mesi le cose a Baghdad e dintorni vanno assai meglio che in passato. Questo non frena i candidati democratici alla Casa Bianca, Barack Obama e Hillary Clinton, dal promettere che la prima cosa che faranno da presidenti sarà di metter fine alla presenza militare americana in Iraq. Nè le difficoltà e le violenze che permangono hanno scoraggiato il presidente George W.Bush dal proclamare, in un discorso al Pentagono nel giorno dell’anniversario, che “rimuovere Saddam Hussein dal potere era la cosa giusta da fare”. Nello stesso tempo, John McCain si gode una nomination presidenziale per i repubblicani che in buona parte è dovuta proprio al miglioramento della situazione in Iraq: la campagna elettorale di McCain, data per morta nell’estate 2007, è rinata di pari passo con il calo della violenza a Baghdad.
La corsa alla Casa Bianca sarà caratterizzata fino a novembre da continue ricette per l’Iraq. Ma il dato di fatto di cui tener conto dopo cinque anni, come ha sottolineato un osservatore indipendente, Anthony Cordesman del think tank CSIS, è che anche i critici della guerra ‘«devono riconoscere che usare la situazione di oggi come una scusa per lasciare il paese, abbandonerebbe 28 milioni di persone a problemi che in larga parte abbiamo creato noi, e creerebbe un vuoto di potere in Iraq che alla fine minaccerebbe gli interessi strategici degli Stati Uniti nella regione». E gli Usa, in quest’ottica, alla fine sarebbero costretti a tornare in futuro con caccia e carri armati.
Se il quinto anniversario ha caratteristiche assai diverse dal quarto, buona parte del merito è della “dottrina Petraeus”. La strategia attuata dal generale americano David Petraeus, seguita da un calo delle vittime di oltre il 70% dall’anno scorso, è al centro di analisi negli Usa e anche di preoccupazioni. Ci sono segnali che il trend positivo possa interrompersi e lo stesso comandante delle forze americane in Iraq è preoccupato.
L’alto ufficiale formato a West Point e a Princeton è il vero protagonista dell’ultimo anno. All’inizio del 2007 Bush decise di affidargli il comando e di seguire le sue indicazioni, invece di quelle appena sfornate dagli esperti dell’Iraqi Study Group. Petraeus chiese e ottenne 30.000 uomini di rinforzo ai 130.000 già presenti in Iraq e oggi il Pentagono presenta cifre secondo le quali da quando l’intera strategia è stata attuata, a giugno 2007, gli episodi di violenza settaria sono scesi del 90% e i morti, civili e militari, del 70%.
I fattori dietro la svolta, secondo gli esperti, sono in realtà molteplici e non è certo secondaria la frenata decisa dalle milizie sciite, forse chiesta e ottenuta da Teheran. Resta il dato di fatto di cifre positive confermate non solo dal Pentagono, ma anche da un osservatorio indipendente come quello istituito sull’Iraq da Jason Campbell e Michael O’Hanlon del centro studi Brookings. Secondo Campbell e O’Hanlon, le vittime civili della violenza erano state 2.700 nel febbraio 2007 (e 2.200 nello stesso mese del 2006) e sono scese a 700 questo febbraio. Nello stesso mese, i militari Usa morti sono stati 36, rispetto agli 81 del febbraio 2007. Gli attacchi da parte degli insorti sono scesi da 210 a 65. Sulla scala da 1 a 11 dei voti che la Brookings dà ai progressi politici raggiunti in Iraq, il paese era a quota 1 nel febbraio 2007 ed è ora a quota 5. Nello stesso tempo, sottolinea Cordesman, «ci sono buone ragioni per cui il generale Petraeus e gli altri comandanti sono stati cauti nel non cantare “vittoria” nel paese». I rischi che tutto torni a precipitare verso il caos restano e Cordesman ritiene che gli Usa abbiano «ancora anni prima di sapere se poter proclamare una vittoria duratura nel senso strategico del termine».
Lo stesso Petraeus, in vista di una sua attesa audizione nella quale il mese prossimo farà il punto della situazione in Congresso, esorta alla prudenza. I leader politici in Iraq non hanno approfittato in modo sufficiente del calo della violenza, ha avvertito il generale, e «non c’è stato il necessario progresso nel campo della riconciliazione nazionale». Per questo, Petraeus difenderà di fronte al Congresso a maggioranza democratica la decisione, già approvata da Bush, di sospendere dopo l’estate il rientro delle forze americane. Il Pentagono ha reso noto che a luglio resteranno nel paese circa 140.000 uomini, più di quelli che c’erano nel gennaio 2007.
La prudenza non cancella comunque gli innegabili successi conseguiti dalla “dottrina Petraeus”. Il generale ha ribaltato la strategia usata dagli americani fin dall’epoca in cui le forze del generale Tommy Franks, nel 2003, entrarono nel paese. L’idea di mandare le truppe americane a intervenire in aree calde, per poi tornare a chiudersi nelle loro basi, è stata sostituita da una presenza permanente di militari americani nei luoghi critici, insieme a forze irachene. E da un’intensa attività “diplomatica” che ha spinto il Pentagono a stringere alleanze con leader sunniti locali un tempo ostili, in chiave anti-Al Qaida.
I successi ottenuti in questo senso già dalla fine del 2006 dai Marines nella provincia di Anbar, hanno fornito la roadmap per il cambio di rotta nel resto del paese. E il modello dei Marines si è rivelato quello vincente.



(Pietro Sordi)

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