La Turchia si trova davanti a un bivio. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) al governo, ha ottenuto il 47% dei voti alle elezioni parlamentari dello scorso anno, ma si trova ora davanti alla minaccia di messa al bando, con l’esclusione dai loro uffici del Presidente e del Primo Ministro. Tale mossa provocherebbe una crisi istituzionale senza precedenti gettando una lunga ombra sul futuro del Paese.
La posta in gioco non riguarda solamente chi terrà in pugno il potere politico, ma molto più importante, quale tradizione determinerà la cultura e la tradizione della Turchia: il secolarismo di Kemal Atatürk o la versione turca dell’Islam sunnita.
Il confronto in corso oppone un’elite secolarizzata, sostenuta dal potere militare e giudiziario, a una crescente classe media di turchi osservanti, rappresentata dall’AKP. Questo confronto minaccia di far deragliare lo sviluppo della Turchia e di farla precipitare in una sorta di guerra civile culturale. Il tentativo del Procuratore Generale, Abdurrahman Yalcinkaya, di far chiudere l’AKP è l’ultimo episodio di una serie di conflitti tra religiosi e secolaristi. Dal 1960, quando l’esercito cacciò il Primo Ministro Adnan Menderes, che aveva favorito relazioni strette con gli altri paesi musulmani, la Turchia ha subito tre golpe, nel 1971, nel 1980 e nel 1997. In tutti questi casi l’esercito aveva assunto il potere per prevenire  ciò che vedeva come un attacco alla Repubblica da parte di presunti elementi sovversivi, come gli appartenenti alle sette religiose.



La rielezione dell’AKP nel 2007 ha solo aumentato le tensioni. La nomina alla presidenza di Abdullah Gül, musulmano praticante, e la recente abolizione del divieto per le donne di portare il velo all’Università, hanno causato l’ultimo scontro con l’establishment secolarista. Con la scusa di salvaguardare la Costituzione, sia il potere giudiziario che quello politico hanno fatto ricorso a mezzi extra-costituzionali – la magistratura attraverso arbitrari divieti e sentenze di carcerazione, l’esercito attraverso la minaccia di sospendere la legge civile.
I generali e i giudici si considerano i garanti della stabilità turca, ma in realtà portano avanti un sistematico attacco alla religione avviato da  Atatürk che, tra il 1922 e il 1924, abolì il sultanato ottomano, il califfato islamico e creò uno Stato a sua immagine.
Il modello secolare turco e l’implicita ideologia Kemalista sono oggi le più importanti fonti di divisione. A differenza di Stati come gli Stati Uniti, in cui vi è separazione tra Stato e Chiesa ma è garantita la libertà religiosa, il secolarismo turco esalta il controllo assoluto dello Stato su principi e pratiche religiose.
Il potente Dipartimento degli Affari Religiosi determina l’educazione religiosa e la formazione degli imam, approvando il contenuto dei sermoni per le preghiere del venerdì. Unito al culto della personalità di Atatürk, il secolarismo turco viola effettivamente l’eguaglianza tra cittadini religiosi e non religiosi e impedisce la formazione di un pluralismo culturale e politico.
Al contempo, anche il mondo religioso è diviso al suo interno. I sunniti, dominanti, si impongono a spese di correligionari musulmani quali gli aleviti, che rappresentano più del 25% della popolazione, ma sono sottoposti a una discriminazione legale e culturale.
Fuori dalle aree urbane, la Turchia sta assistendo a una strisciante islamizzazione. Recentemente, autorità locali guidate dall’AKP hanno introdotto divieti alla vendita di alcool nei ristoranti dia gestione statale. È preoccupante che  il Primo Ministro, Recep Tayyip Erdogan, abbia difeso questa decisione affermando che «le istituzioni dello Stato, non dovrebbero mai essere di cattivo esempio… questo non dovrebbe essere argomento di discussione».
Dato questo clima, sia i secolaristi che l’AKP devono abbandonare le loro intransigenti posizioni in favore di un compromesso. I secolaristi non possono più continuare a pretendere che l’ideologia di Atatürk sia vista come universale, neutrale e tollerante. Essi devono accettare che una larga parte della popolazione non condivide, né condividerà mai, il loro credo secolare, perché considerato una minaccia alla libera espressione della fede religiosa.
I Kemalisti sbagliano a trattare la religione come un puro fenomeno privato, senza rilevanza pubblica, ma devono riconoscere che tutti i sistemi di fede e tutte le pratiche sociali sono politiche, e dovrebbero guardare alle migliori tradizioni di secolarismo, che separano lo Stato dalle Chiese, senza dividere la religione dalla politica. In una Turchia moderna, che essi intendono difendere, dovrebbero potersi confrontare liberamente valori contrapposti. Un intervento giuridico o militare spingerebbe la religione nelle catacombe e contribuirebbe alla rinascita del fondamentalismo – in tal caso, la ripetizione della sanguinosa esperienza dell’Algeria rappresenterebbe una concreta possibilità.
Dall’altra parte, l’AKP non può procedere a colpi di riforme costituzionali, che vengono viste come un attacco al secolarismo. Erdogan e i suoi alleati hanno ragione a riconsiderare le norme legislative sull’offesa alla “Turchità”, per le quali venne processato nel 2007 il premio Nobel Orhan Pamuk. Ugualmente, l’AKP deve combattere le politiche discriminatorie contro aleviti, curdi e armeni, lavorando alla loro piena integrazione nella società turca. La sfida tra AKP e i suoi oppositori secolaristi consiste nel lavorare assieme per creare uno Stato pluralista dove le persone di tutte le fedi, o senza fede, possano coesistere pacificamente. Questo tipo di identità civile non solo consentirebbe alla Turchia di svilupparsi e modernizzarsi in linea con i suoi valori e le sue tradizioni, ma manderebbe un potente segnale al resto del Medio Oriente, e non solo, che Islam, democrazia e pluralismo sono in effetti compatibili.
(Adrian Pabst)

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