Dal carcere di Opera ai pinnacoli del Duomo. Un tragitto geograficamente breve, ma in realtà una distanza, a percorrerla dal basso in alto, che sembra infinita. Eppure, può essere colmata. Ci vuole tanto lavoro, qualcuno che insegni un mestiere, persone che decidano di investire tempo e danaro per dare una formazione professionale a chi non potrebbe averla: e così può capitare che alcuni detenuti del carcere di Opera diventino artigiani scalpellini, in grado di produrre ornati, creste e guglie commissionate dalla Veneranda Fabbrica del Duomo.



Tutto questo è reso possibile dalla Cooperativa sociale Soligraf. Una realtà nata nel 1995 con lo scopo concreto di far lavorare i carcerati o di introdurli al mondo del lavoro una volta tornati in libertà. Diverse le attività: si va dai servizi (tra cui, ad esempio, quello di annullamento di documenti cartacei, che ha richiesto la creazione di un laboratorio tipografico) alle lavorazioni artigianali della pietra, del legno e del ferro. Gli artigiani del ferro eseguono assemblaggi e lavorazioni artistiche; gli artigiani della pietra sono in grado dì realizzare una produzione lapidea anche leggendo disegni preparati da architetti o designer. Tra i loro committenti, appunto, la Fabbrica del Duomo di Milano. «Ce la facciamo, pur tra difficoltà immense», racconta Mafalda Occioni, presidente della cooperativa. «Ci impegniamo a dare loro una formazione veramente qualificata, che prevede lo studio del disegno tecnico e della storia dell’arte; e il loro lavoro è sempre monitorato da esperti. Le condizioni pratiche pero sono veramente sfavorevoli: non c’e nessun luogo adeguato, come ad esempio un capannone e spesso siamo costretti a trasportare blocchi di marmo in luoghi stretti, con tutte le prevedibili difficoltà».



Ci sono poi altri mestieri, più usuali, ma non per questo meno importanti e gratificanti, che vengono svolti nel carcere di Opera. La Cooperativa sociale “Il giorno dopo” ha avviato infatti nel 2003 un laboratorio di panificazione in cui lavorano una decina di detenuti. Un “prestìn” di tutto rispetto, attivo 365 giorni l’anno e che sforna sugli 8 quintali di pane al giorno (contro la media di tre o quattro quintali di un panettiere comune). Destinazione: mense, asili, centri di prima accoglienza gestiti da Milano Ristorazione. «Qualsiasi cosa succeda, alle sei del mattino il pane deve essere pronto» racconta il presidente della cooperativa Gianluca Rolla: «Tre giorni fa, per esempio, si è allagata la centrale termica e i ragazzi hanno dovuto impastare a mano. Ma alle sei, tutto era pronto».



La cooperativa “Il giorno dopo” si occupa poi di tante altre attività, in cui vengono occupati anche ex detenuti che vengono così reinseriti nel mondo del lavoro: il disassemblaggio di elettroutensili inutilizzabili per riciclarne i pezzi; l’attività di facchinaggio e piccoli trasporti per la multinazionale francese Siram; le pulizie negli appartamenti di tutti i pazienti con disturbi psichiatrici di Milano.

Queste due opere non sono accomunate solo dal fatto di svolgere la propria attività a favore dei carcerati; appartengono, insieme ad altre cooperative, ad una sorta di nerwork del non profit: il gruppo La Strada. «Si tratta di una rete di risposte» spiega Walter Izzo, presidente del gruppo, nonché vicepresidente della Federazione dell’Impresa Sociale Compagnia delle Opere (Fis CdO); «l’origine di questo tentativo è nella presa di coscienza che l’uomo e uno e le sue esigenze sono collegate l’una all’altra. Per cui possiamo avere il detenuto, che deve lavorare in carcere, ma che ha anche la moglie senza casa, e allora si cerca di provvedere; oppure ha il figlio tossicodipendente, ed è un altro problema. Creare una rete di opere permette di rispondere in maniera unitaria a tutte queste necessita. Ma tra tutte le attività svolte dal gruppo La Strada, confessa Izzo, «quella di far lavorare in carcere è una delle più mortificanti e frustranti. Innanzitutto perché il carcere è il regno dell’arbitrio gestito dallo Stato: si pensi al sovraffollamento che ha portato all’indulto o alla per durante mancanza di cure mediche. In secondo luogo, il carcere continua anche nella struttura dell’edificio, ad essere pensato come un luogo di segregazione. Con due conseguenze disastrose: che il detenuto, mentre è in carcere, continua a pesare sulla spesa pubblica e quando esce non sa far nulla. E quindi, presumibilmente, continuerà a fare il delinquente».

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