Ha quasi le lacrime agli occhi quando esce dal carcere di Padova. Jorge Rios, responsabile Progetti di Sviluppo sostenibile UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime) era arrivato in Veneto per suggellare con la sua presenza l’appoggio dato dall’Onu alla manifestazione Goodfood che dal 30 maggio al 2 giugno all’interno della rassegna Squisito (mostra enogastronomia internazionale promossa dalla comunità di San Patrignano) farà vedere esperienze di successo nella riabilitazione di carcerati, tossicodipendenti ed emarginati attraverso percorsi terapeutici nel campo dell’enogastronomia.
Ma la giornata trascorsa a Padova è andata ben oltre le sue aspettative. Innanzitutto l’imbattersi con la fede nella basilica di Sant’Antonio poi l’esperienza del bello con la visita alla Cappella degli Scrovegni. Ma quando ha visto le gigantografie dei dipinti di Giotto all’interno dei laboratori del carcere ha sgranato gli occhi. Se non ci fossero le sbarre alle finestre – ha commentato – qui non sembra neppure di essere in una casa di pena. «Non ho mai visto nulla di simile nelle mie peregrinazioni in giro per il mondo. Credo che la vostra esperienza – ha confidato al presidente della Cooperativa Giotto – debba essere esportata come esempio e io mi impegnerò a farla conoscere». Un impegno simile è stato assicurato anche dal vice presidente del Parlamento Europeo, Mario Mauro che lo ha accompagnato nella visita al Carcere. «Vi chiamerò presto per una audizione in commissione a Bruxelles – ha detto Mauro – perché qui siamo di fronte ad un caso di eccellenza capace di dimostrare sul campo che è possibile il recupero dei carcerati e un’integrazione reale che supera differenze culturali e di provenienza». Giornalisti e cameramen hanno la possibilità di toccare con mano la vita dietro le sbarre del carcere di Padova, edificio relativamente nuovo (anni 90) dove vengono ospitati circa 700 carcerati, circa il doppio di quello previsto. Qui da circa vent’anni è impegnata nel lavoro di recupero e di reinserimento dei carcerati la Cooperativa Giotto che fa parte del consorzio Rebus, realtà affiliata alla Compagnia delle Opere. «Quando arrivi dentro un carcere- ci dice Marino – non sei piu’ nulla.Così è stato per me fino a quando dopo sette anni di carcere ho incontrato qualcuno che mi ha ridato fiducia offrendomi un lavoro vero. Una fiducia che mi ha cambiato perché mi sono sentito di nuovo uomo».
Martino dal carcere non uscirà più. L’ergastolo lo ha rinchiuso dietro le sbarre per tutta la vita. La stessa vita che lui ha drammaticamente cambiato violentemente ad altre persone. Ora risponde al telefono installato nel call center nelle carceri di Padova dove si prenotano visite e ricoveri per l’Asl di Padova. Un lavoro che richiede puntualità, precisione, serietà e che qui viene eseguito in modo migliore rispetto ad altri call center che lavorano sempre per l’Asl ma al di fuori del carcere. Franco lo incontriamo invece sul muletto mentre trasporta pezzi di plastica di una nota azienda che dalla Croazia ha deciso di trasferire dietro le sbarre una unità di montaggio delle sue valigie. «Io so che da qui non uscirò mai. Ho due condanne “fine pena mai” come noi chiamiamo l’ergastolo. Ma questo lavoro mi ha ridato comunque speranza.. Prima la giornata era monotona, oggi le sbarre si sono un po’ piu’ allargate e io posso dire di essere contento, quasi realizzato». Lui era un battitore libero nella campagna veneta, temibile e solitario.. Ora – ci dicono i responsabili della Cooperativa – anche il suo volto è trasformato rispetto a quando è entrato: ride e scherza con i suoi compagni di avventura dietro le sbarre, come non faceva quando era libero.
Storie come queste sono sempre piu’ numerose nel carcere di Padova dove il lavoro della Cooperativa Giotto incomincia a dare frutti importanti ed è sempre più guardata come modello da chi cerca esempi da mettere in pratica per affrontare il difficile lavoro di reinserimento dei carcerati nel rispetto dei dettati costituzionali. C’è il laboratorio di pasticceria che prima di Natale ha fatto parlare di sé anche la grande stampa. L’Accademia della cucina italiana ha infatti deciso di assegnare al loro panettone il piatto d’argento per il migliore panettone italiano. Ma è solo uno dei tanti risultati di eccellenza che si incontrano al nel Carcere di via due Palazzi. Dai laboratori artigianali escono manichini che poi fanno il giro del mondo con griffe di grido dell’alta moda; gioielli che qui vengono montati e preparati come in una normale oreficeria senza che mai si siano verificati furti o danneggiamenti, assemblaggi plastici per note aziende un laboratorio di cartotecnica. In tutto sono coinvolti un centinaio di detenuti che attraverso questo lavoro sono rinati. «Se pensi alle zucchine, ai peperoni o allo spezzatino che devi preparare – dice Gianni – non pensi alle solite cose. Quando sei con gli altri carcerati parli del lavoro che hai fatto, di quello che devi imparare. Non pensi a come rubare un tipo nuovo di auto». «Grazie a questo lavoro – ci dice Paolo, un pasticcere – smetti di odiare» .
Parole semplici che confermano i risultati di un metodo. In Italia su 100 carcerati che escono per fine pena il 90% torna a commettere reati. Una percentuale di recidiva altissima che vanifica il dettato costituzionale. “Vigilando, redimere” si legge in una foto del 1951 scattata nel carcere di Noto e che si vede all’ingresso di uno dei laboratori di Padova. Parole quasi mai attuate. Su oltre 50.000 carcerati in Italia le cifre ufficiali parlano di 11.000 “lavoratori” ma, in effetti, si tratta di lavori fittizi, spesso inutili, comunque sottopagati. I detenuti con regolari contratti di lavoro dietro le sbarre non raggiungono le 800 unità in gran parte sono concentrati nel Nord Italia. «Una cosa per noi è sempre stata chiara fin da quando abbiamo iniziato 20 anni fa la nostra presenza: il lavoro deve essere lavoro. Chi ci sceglie deve farlo non per pudore, per carità ma perché il nostro prodotto è come quello degli altri. Anzi. Meglio. Quello che io dico sempre è che se gli altri fanno 100 noi dobbiamo fare 101 perché abbiamo un handicap da superare. E’ un invito alla responsabilizzazione che per il carcerato diventa stimolo e sfida. Quando alla fine del mese portano a casa lo stipendio che in gran parte spediscono a casa per loro la dignità di uomini, di padri e di mariti, riprende corpo». A parlare così senza troppi giri di parole è Nicola Boscoletto presidente del consorzio Rebus che non si tira indietro quando gli chiediamo un parere sul tema della sicurezza ai primi posti dell’agenda del nuovo Governo. «Noi stiamo dando un grande contributo a questo problema. Bisogna però avere ben chiaro i termini del problema. Occorre tener presente quello che noi chiamiamo la filiera della sicurezza. Il delitto deve essere perseguito, la pena deve essere certa, ma altrettanto certo deve essere il percorso di recupero. Su questo l’articolo 27 della Costituzione parla chiaro quando dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” Purtroppo invece – conclude amaramente Boscoletto – salvo rari casi di eccellenza in Italia da troppo tempo non si fa nulla».