A cosa serve la legge elettorale? Quando una legge elettorale è “buona e giusta”? I semplici obiettivi di buon senso che una legge elettorale dovrebbe avere potrebbero essere questi: rappresentatività, governabilità e (scusate la parolaccia) accountability. Il parlamento europeo non ha il problema della governabilità: a differenza di ogni altra assemblea con questo nome, il parlamento europeo non ha molti poteri (ma ne avrà di più una volta che il Trattato di Lisbona sarà approvato), non ha effettivi poteri di influenzare i lavori della Commissione (il “governo” dell’Unione Europea) e ancor meno del Consiglio (l’assemblea dei capi di stato e di governo). Inoltre le linee di partito nel parlamento europeo sono attraversate dalle divisioni nazionali (o regionali) che spesso prevalgono.
Rimangono quindi rappresentatività, e la nostra accountability. Per assicurare rappresentatività niente è meglio di una legge proporzionale: chi ottiene il 20% dei voti, avrà il 20% dei seggi, e così via. Correzioni con sbarramenti al 4-5% ci sono in molti paesi e possono essere molto utili per evitare che partiti estemporanei o di scarsa (e magari molto localizzata) rappresentatività arrivino al parlamento. Nel 2004 nella circoscrizione Sud un certo Paolo Cirino Pomicino arrivò a Strasburgo forte dell’ 1.3% dell’UDEUR e qualche migliaio di preferenze personali. Per non parlare del Movimento Sociale Fiamma Tricolore e Alternativa Sociale di Alessandra Mussolini, che riuscirono a eleggere un deputato ciascuno. Con uno sbarramento al 5%, facendo una simulazione basata su dati delle scorse elezioni europee nel 2004, l’Italia manderebbe a Strasburgo deputati appartenenti a PDL, PD, UDC, Lega e Rifondazione Comunista. E non sembra una delegazione irragionevole, né particolarmente sbilanciata verso i partiti maggiori (vedi tabella). Con uno sbarramento a livello nazionale si avvantaggerebbero soprattutto i partiti grandi e rappresentativi su tutto il territorio. A perdere sarebbero (ovviamente) i piccoli e i partiti più localizzati (Lega e UDC).
PARTITI/N. ELETTI | Senza sbarramento | Sbarramento al 5% | Differenza |
ULIVO | 25 | 31 | +6 |
FORZA ITALIA | 16 | 20 | +4 |
AN | 9 | 10 | +1 |
RIFONDAZIONE | 5 | 7 | +2 |
UDC | 5 | 5 | == |
LEGA | 4 | 5 | == |
Verdi | 2 |
| -2 |
Comunisti Italiani | 2 |
| -2 |
Pannella | 2 |
| -2 |
Di Pietro | 2 |
| -2 |
Socialisti | 2 |
| -2 |
UDEUR | 1 |
| -1 |
Alternativa Sociale | 1 |
| -1 |
Pensionati | 1 |
| -1 |
Fiamma Tricolore | 1 |
| -1 |
| |||
TOT | 78 | 78 | 0 |
Veniamo ora all’accountability: questa parola inglese non ha una traduzione diretta in italiano, e a volte mi domando se questo sia o no un caso. La domanda a cui questa parola si può collegare è “A chi rendono conto i nostri rappresentanti?”. La risposta ovvia dovrebbe essere: agli elettori. Il sistema elettorale migliore per questo è il maggioritario all’inglese, usato anche in tutte le elezioni negli Stati Uniti. Ogni collegio elegge un solo deputato, che rappresenta quell’area. Quando un deputato è intervistato dalla BBC, in sovra impressione appare nome, cognome, partito, e collegio di appartenenza (“Boris Johnson, Conservative, Henley on Thames” per esempio). Quando il parlamento deve votare (ad esempio) sulla ricerca su cellule staminali embrionali, compare tra gli avvisi dei parroci alla fine della Messa “Scrivi una lettera al tuo deputato per dirgli come vorresti che votasse”. Chi lo ha fatto sa che il deputato risponderà, e risponderà dal suo ufficio nel collegio, a pochi chilometri dalla propria casa. Ogni sistema che colleghi in modo forte il proprio voto con l’elezione di uno specifico deputato garantisce una certa accountability. Il proporzionale invece non garantisce questo. Chi è il “mio” deputato è una domanda che non ha risposta univoca. E non ha risposta a maggior ragione se le liste sono bloccate, vale a dire compilate dai partiti e il voto di preferenza non è permesso. In questo caso non c’è nessuna possibilità per l’elettore di “punire” un eletto che non si è comportato bene o premiare uno che si è comportato male. La decisione del partito di metterlo o non metterlo in lista ne determinerà l’elezione o meno. Non solo: quale incentivo avrà il singolo candidato a fare campagna elettorale, ad andare nei mercati, nei circoli, nelle associazioni di categoria, se per la sua elezione tutto dipende dalla sua posizione in lista (decisa a Roma) e dalla quantità di voti al suo partito? Molto molto poco, di certo.
Ci sono molti motivi per cui non volere le preferenze però: prima di tutto fanno esplodere i costi delle campagne elettorali, e questo riporta alla nostra memoria il modo in cui si finanziavano i partiti (e le correnti) negli anni ’80. Un’altra conseguenza spesso citata, e strettamente collegata alla prima, il legame delle preferenze con le clientele ed il voto di scambio. Tutto vero, purtroppo. E soprattutto in certe aree d’Italia use ad una politica di stampo più “feudale” il problema potrebbe essere davvero serio. A favore delle preferenze c’è di certo il fatto che il legame personale tra eletto ed elettore è restaurato: anche se la mia circoscrizione elegge 25 deputati, io ho votato per uno in particolare, e per nessun altro. Inoltre abbassa di molto le “barriere all’entrata”. Per essere eletto devo solo avere consenso (voti personali), e riuscire ad essere messo in lista da un partito non troppo piccolo: in questo modo un giovane sconosciuto ai più come Roberto Formigoni riuscì a diventare vicepresidente del Parlamento Europeo in forza dei voti presi nel lontano 1984. Se le liste sono bloccate, l’unica cosa di cui hai bisogno per diventare parlamentare è essere amico di Bossi, Berlusconi, Casini, Di Pietro o Veltroni. Nient’altro (e vedere certe facce in Parlamento non fa che confermarlo). Dal punto di vista di chi è abituato a dare voti di preferenza a partire dalla propria appartenenza culturale o ideologica passare alle liste bloccate equivale a delegare alla bravura dei lobbisti della propria parte la possibilità di vedere eletto qualcuno di veramente rappresentativo delle proprie preferennze. La possibilità della nascita di un “nuovo Formigoni” è quindi demandata al potere della lobby che sta dietro di lui, o alla casuale amicizia con “il capo”.
Qual è quindi il giudizio conclusivo? Mi sento di dire che, quanto meno per le elezioni europee, le preferenze non sono certo il male assoluto: il voto di scambio mi sembra possa essere poco interessante rispetto ad un’assemblea che non ha poteri sostanziali come il Parlamento Europeo. E più in generale la possibilità di scegliere liberamente il proprio rappresentante mi pare sia un valore più importante delle possibili clientele che potrebbero emergere.
Esiste in astratto un sistema elettorale che riuscirebbe a mediare tutte queste istanze, ed è quello usato in Irlanda, ma è molto distante da quelli a cui siamo abituati, e sarebbe un puro esercizio intellettuale supportarlo. Gli economisti di Noise from Amerika proponevano un sistema analogo utilizzato in Australia, anch’esso tuttavia, a mio modestissimo parere, pecca di astrazione. I sistemi elettorali sono meccanismi che devono poi essere utilizzati da tutti noi e devono garantire semplicità ed efficienza; i fattori culturali contano molto e bisogna tenerne conto quando si citano in astratto sistemi vigenti in altri paesi.
Quello che vorrei aspettarmi nelle prossime settimane di discussione parlamentare è vedere un alzarsi voci a favore dell’introduzione delle preferenze anche all’interno delle fila della coalizione di governo. La parola sussidiarietà è entrata nel linguaggio politico comune anche grazie a quei politici “nati dal nulla”, ma portatori di molte preferenze, oltre che di una visione culturale. La speranza è che questi ultimi riescano ad evitare che lo scempio delle liste bloccate (e quindi degli eletti scelti a tavolino) dopo essere stata attuata per la Regione Toscana nel 2005, per il parlamento nazionale nel 2006, non arrivi anche in Europa nel 2009.
(Emanuele Bracco)