Il processo penale, non meno di quello civile, è affetto da una grave malattia che si chiama irragionevole durata, ormai lo sanno tutti; ma oggi il nostro malato ha una ragione in più per disperare: non deve guarire con la cura delle necessarie riforme, ma… per decreto. E deve anche sapere bene che, se non guarirà in tempo, verrà soppresso, cioè estinto.
Senza modificare una sola regola del codice di procedura penale e senza prevedere alcun intervento strutturale sulla giustizia, il cosiddetto ddl sul processo breve, in discussione al Senato, ha creato dal nulla l’istituto dell’estinzione del processo per violazione dei termini di durata ragionevole.
Il testo è complessivamente gravido di contraddizioni e di irrazionalità, che si traducono potenzialmente in seri profili di illegittimità costituzionale, soprattutto per violazione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, come molti commentatori hanno già evidenziato anche su queste pagine.
In parole semplici, è stato previsto il termine rigoroso di due anni, entro il quale ciascuno dei tre gradi di giudizio deve concludersi, pena l’estinzione, cioè la fine del processo e sostanzialmente il proscioglimento dell’imputato, colpevole o innocente che sia. Naturalmente, per i reati più gravi o che destano allarme sociale, vi sono una serie di esclusioni dalla regola draconiana, le quali, lungi dal razionalizzare il sistema, introducono ulteriori profili di ingiustificata disuguaglianza.
La previsione di un termine uguale per ciascuno dei tre gradi di giudizio, senza nemmeno la possibilità di “recuperare” il tempo perduto in una diversa fase, non tiene minimamente conto della realtà – anche fisiologica – del processo penale, la cui durata in primo grado (quando avviene la vera e propria raccolta delle prove nel contraddittorio delle parti) è sempre necessariamente superiore a quella in grado di appello e in cassazione.
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Così come la previsione di una “durata breve” solo per gli imputati incensurati (cioè privi di precedenti condanne penali) crea non solo disparità, ma anche paradossi. Immaginiamo due imputati dello stesso reato, tratti a giudizio in concorso tra loro nello stesso processo: uno con un precedente penale per un delitto fiscale o magari una resistenza a pubblico ufficiale commessa da ragazzo allo stadio (pena lieve e sospesa, ovviamente); il complice (che lo aveva istigato al delitto) incensurato. Allo scoccare del secondo anno di processo, il complice istigatore saluta il compagno recidivo e si sfila dal processo, che prosegue invece a carico del primo indefinitamente. Salvo che, ma il testo del ddl su questo non prende posizione lasciando all’interprete di colmare una grave lacuna, l’estinzione del processo travolga tutte le posizioni, così creando ulteriori ingiustizie.
E ancora: giustamente l’estinzione del processo per irragionevole durata non si applica a tutti i delitti puniti con pena uguale o superiore a dieci anni e ad una serie di reati giudicati comunque particolarmente gravi, socialmente allarmanti o riprovevoli. Ma tra questi ultimi, vi sono anche tutte le contravvenzioni alla disciplina dell’immigrazione clandestina, tra le quali vi sono ipotesi francamente di modestissima gravità. Il risultato? Il complesso processo a carico di un grande riciclatore, corruttore o falsificatore di bilanci deve durare meno di due anni; quello a carico dell’immigrato irregolare o di chi ha fornito alloggio a un solo lavoratore, magari onesto ma clandestino, non ha confini di durata.
È inutile, allora, chiamare in causa una presunta urgenza nel provvedere sulla durata dei processi che ci deriverebbe da sollecitazioni “europee”, quando piuttosto occorre affermare a chiare lettere che il problema del riequilibrio del rapporto tra politica e giustizia, anche con riguardo ai processi del solo presidente del Consiglio, deve essere risolto velocemente e con altri strumenti più adeguati al fine, senza creare ulteriori danni al sistema penale già al collasso.
Non mancano molte ed autorevoli proposte in merito, ma tra queste si distingue “la via del legittimo impedimento del premier” durante tutto il mandato, suggerita dall’On. Casini o quella di un’immunità parlamentare affidata – nel suo ultimo giudizio – alla Consulta, prospettata dall’on. Violante. Senza entrare nel merito di proposte che spetta alla politica adottare, si può almeno apprezzare lo sforzo di dire basta alle ipocrisie.
(Saverio Mancini)