Capita di partecipare a un convegno sui temi della riforma del welfare, in una grande città (Padova) dell’arrembante Terza Italia, quella del capitalismo molecolare fatto di imprese piccole e piccolissime, dei giovani che lasciano presto la scuola per lavorare, dell’immigrazione diffusa tra integrazione e nuovi ghetti.
Insomma, capita di stare in un pezzo dello sconfinato Nord-est, l’Italia che una volta era “bianca” e poi si è tinta stabilmente di “verde” e di “azzurro”. Ma dove la componente “rossa”, socialista o comunista, ha sempre rappresentato un elemento non secondario di un tessuto sociale composito ma mai decomposto.
Capita allora a Padova, in un pomeriggio di inizio maggio, di partecipare a un convegno per provare a demolire, punto su punto, i capisaldi del modello socialdemocratico, dello statalismo onnivoro, dell’assistenzialismo paternalistico. Ma capita soprattutto, una volta sceso dal palco, di essere avvicinati da un uomo corpulento, suppergiù sulla cinquantina, che ti butta lì: «Sa, io sono un metalmeccanico, comunista per tradizione e poi per scelta. Negli anni Settanta c’ero anch’io, in mezzo ai duri, a difendere il proletariato dai padroni e dai brigatisti rossi. Ma oggi non ce la faccio più a stare dietro ai miei compagni del sindacato. Sono iscritto alla Cgil, ma la difesa del vecchio sistema sociale non ha più senso: si finisce per difendere solo i privilegiati, buttando a mare tutto gli altri, che aumentano e crescono ogni giorno. Tutti gli altri italiani, intendiamo: perché se sei immigrato, anche irregolare, qualcuno che ti aiuta, nel sindacato, lo trovi di sicuro».
Può capitare, non solo nei film. Ed è capitato a chi scrive, pochi giorni orsono. Tutto d’un tratto ti trovi di fronte, in carne e ossa, la vera rivoluzione antropologica, la seconda dopo quella descritta da Pasolini a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. È la rivoluzione della classe operaia, che ha capito di non essere andata in Paradiso e che ora sospetta di essere pronta all’inferno, non per colpa dei padroni ma per opera dei compagni di lotta e non di governo.
Iniziamo a parlare con Michele (il nome è di fantasia, ci chiede comprensibilmente l’anonimato), ad andare a fondo su una vita che non è più capace di farsi legare dall’ideologia. «Sono sposato, ho due figli ancora minorenni. Mia moglie insegna alla scuola pubblica. Abbiamo due lavori sicuri, potremmo guardare al futuro con una certa tranquillità, anche se come tutti facciamo fatica quando si avvicina la fine del mese».
E allora, perché siete così arrabbiati con la Cgil? In fondo siete due lavoratori iperprotetti, in due settori in cui il sindacato, specie la Cgil, dettano ancora legge. «È verissimo, ma è proprio per questo che siamo ormai disillusi. La Cgil è ormai malato del potere che ha conquistato, sopravvive per difendere le rendite acquisite, non difende più i giovani, è conservatore. Ma non è solo questo…».
E allora approfondiamo. Emerge il ritratto sociologicamente nitidissimo del grande cambiamento dei nostri tempi. La moglie non sopporta più la scuola pubblica, gli insegnanti demotivati, l’assenza assoluta di interesse per il destino dei ragazzi: «Me lo dice ogni giorno, la mia Anna: sono tutti lì a difendere i loro interessi, ma quello degli studenti è l’ultimo dei problemi. E questo, ovviamente, a causa del sindacato».
Ma poi il racconto si allarga, penetra nelle maglie della vita quotidiana: «Abitiamo in un quartiere periferico, non proprio case popolari, ma insomma la zona non è che sia molto bella. La vita lì non è facile. Soprattutto perché è pieno di immigrati, che ne combinano di tutti i colori. Non sono mai stato razzista e non lo sono neppure oggi: sono cresciuto in una cultura della tolleranza e dell’accoglienza e ho fatto di tutto per rispettarla. Ma oggi ho come l’impressione che noi, italiani della vecchia classe operaia, siamo stati abbandonati a noi stessi, innanzitutto dal sindacato e dai partiti di sinistra. Se chiedo sicurezza e giustizia, mi tacciano per fascista. Ma io voglio solo una vita serena per me e la mia famiglia».
Ecco quel che tanta sociologia non vuole vedere, resa cieca (come ha ammesso qualche settimana fa proprio un sociologo, e per di più di sinistra, come è Marzio Barbagli) dall’ideologia, dall’utopia, dai “paradigmi interpretativi” a senso unico. Si spalanca alla vista una realtà più complessa di quella descritta da decine di studi ammantati dall’aurea della scienza sociale. Si capisce allora quel che alcuni politologi, tra cui Ilvo Diamanti, hanno cominciato a descrivere da qualche anno: lo spostamento, neanche troppo lento, del voto operaio da sinistra verso destra, dal sogno utopico al realismo assoluto.
E allora domandiamo: ma per chi vota, Michele? «Ho sempre votato a sinistra, Pci poi quel che ne è stato. Ho provato con Di Pietro, ma ora ho capito che la sua proposta d’ordine è solo un bluff. E allora l’ultima volta ho votato Pdl. Pretendo rispetto per una vita intera passata a sgobbare in fabbrica, voglio che qualcuno difenda davvero i miei interessi, voglio sentirmi sicuro a casa mia, non voglio vergognarmi di essere italiano».
Uno squarcio di neorealismo italiano, l’immagine di un Paese che cambia ma che si fatica ancora a comprendere. Un’Italia forse a rovescio, in cui il leghismo penetra nelle fabbriche e i difensori del proletariato si consolidano nei salotti buoni, nelle redazioni televisive, nei posti che contano. C’è ancora molto da descrivere di questo Paese, se solo ci fossero penne pronte a farlo. Lo abbiamo fatto quasi per caso, tornando da Padova, Terza Italia.