La scorsa settimana il Csm ha “bocciato” il disegno di riforma del processo penale voluto dal ministro Alfano. Ma affrettarsi a rubricare la cosa sotto la voce “conflitto ideologico tra politica e magistratura” rischierebbe di far perdere di vista i termini di una partita complessa. Se il lettore avrà un po’ di pazienza, proveremo di spiegargli il perché.
Il Csm può fornire un parere tecnico e preventivo al ministro Guardasigilli sui disegni di legge posti all’attenzione del Parlamento nella misura in cui essi possono avere specifiche ricadute sul funzionamento della giustizia e sull’ordinamento giudiziario. In tali ipotesi, solo un responsabile self restraint del Consiglio può evitare il facile rischio di creare una sorta di commistione tra le prerogative del Parlamento e quelle dell’organo di autogoverno dei giudici e, laddove le norme proposte vengano tacciate di incostituzionalità, tra quest’ultimo e la Corte costituzionale.
Questa “contaminazione” tra reciproci ambiti è variamente commentata a livello politico; ciò è puntualmente accaduto anche in occasione del parere espresso sul progetto di legge licenziato dal governo a febbraio di quest’anno, e giacente presso la Commissione giustizia del Senato, avente ad oggetto la revisione di aspetti importanti del processo penale. A chi ha stimato doveroso che i giudici esprimessero il loro parere su riforme in grado di pesantemente condizionare l’organizzazione del loro lavoro, si sono contrapposti quanti hanno indicato nel Csm una impropria “terza camera” legislativa (alludendo chiaramente alla mancanza di rappresentatività popolare di un organo che si deve occupare solo di “alta” amministrazione).
Il vice presidente dell’organo di autogoverno dei giudici ha provato a smorzare i toni affermando che non era stata espressa alcuna bocciatura del progetto di legge all’attenzione del Parlamento; in questo è stato seguito dal ministro della Giustizia, che ha ricordato come si tratti solo di un parere tecnico, poiché alle Camere è riservata la piena facoltà di legiferare, pur tenendo conto dei suggerimenti espressi. Per la verità, il ddl cui s’accennava reca anche riforme dell’ordinamento giudiziario e contiene deleghe su importanti aspetti della complessiva amministrazione della giustizia. Il parere licenziato, peraltro da una larga e trasversale maggioranza, concerne però esclusivamente taluni aspetti della riforma del processo penale.
Alcune proposte riecheggiano recenti e controversi avvenimenti, come quella che intende allargare i motivi di astensione e ricusazione del giudice anche a “giudizi espressi fuori dall’esercizio delle funzioni giudiziarie, nei confronti delle parti del procedimento e tali da provocare fondato motivo di pregiudizio all’imparzialità” di chi deve assumere la decisione. Non è difficile scorgere un aggancio con la “fallita” ricusazione di un membro del collegio nel processo a carico di David Mills; va sottolineato, al riguardo, come l’allargamento della possibilità di rifiutare il giudice “naturale” chiama in causa il delicato equilibrio tra la necessità di assicurare l’imparzialità del giudicante e la facoltà anche per i componenti della magistratura di partecipare al dibattito culturale che si svolge nel paese, potendo essi esprimere valutazioni ed opinioni estranee alle questioni dedotte in giudizio senza pregiudizio per l’imparzialità stessa. Un consigliere di Magistratura Democratica ha chiosato: «è come dire che se oggi dico che Mourihno è un pessimo allenatore non potrò giudicarlo né ora né mai, per un qualunque reato che abbia commesso».
L’attualità e la sconcertante vicenda della “guerra” tra le Procure della Repubblica di Salerno e Catanzaro, con reciproci ed incrociati sequestri di materiale, ancora una volta spiega perché si voglia assegnare al Procuratore generale presso la Corte di cassazione la possibilità di devolvere ad un ufficio “terzo” una determinata vicenda processuale quando ricorrano “eccezionali situazioni di contrasto” tra diversi uffici del Pm tali da “pregiudicare l’ordinato esercizio dell’attività ovvero da ledere il prestigio degli uffici stessi”. Locuzioni che, per la loro genericità, lasciano aperto il rischio di alterazione dei delicati principi che regolano la fissazione della competenza e la soluzione dei contrasti; e rinunciano un po’ troppo frettolosamente al ricorso agli ordinari strumenti processuali già esistenti che, proprio nel caso in esame e pur con qualche lungaggine, si sono mostrati comunque efficaci nell’offrire un’accettabile soluzione alla spinosa questione.
Altre riforme all’attenzione del Parlamento hanno un comune denominatore: il ridimensionamento delle prerogative del Pm rispetto all’espansione che esse possiedono nell’ordinamento processuale vigente. Così, per fare un esempio, occorrerà l’assenso scritto del Procuratore della Repubblica per la formulazione di richieste di misure cautelari personali (quelle che incidono sulla libertà) o reali (destinate a limitare la disponibilità di beni) a pena di inammissibilità della richiesta stessa. Proprio quest’anno le sezioni unite della Corte di cassazione erano andate – sul punto – di diverso avviso; e va onestamente detto che la proposta conduce ad una gerarchizzazione delle Procure della Repubblica ben oltre la soglia che la pur recente riforma dell’ordinamento giudiziario aveva disegnato.
Ma l’aspetto certamente più delicato della riforma è quello che, attraverso una serie di modifiche, ridisegna nel loro complesso i rapporti tra polizia giudiziaria e Pm. All’insegna di un marcato ridimensionamento della dipendenza gerarchica della prima rispetto al secondo. Sono previsti l’eliminazione della possibilità di acquisizione diretta della notizia di reato da parte del Pm, la sottrazione di una parte cospicua della polizia giudiziaria alla dipendenza ed alle direttive del Pm, l’ampliamento dei poteri della polizia giudiziaria nella fase delle indagini preliminari, l’eliminazione dell’obbligo per essa di riferire “prontamente” al Pm l’apprensione di una notizia di reato, la possibilità di compiere accertamenti urgenti ed irripetibili di propria iniziativa anche quando il Pm fosse in grado di intervenire sulla scena del delitto.
Il Csm osserva come tale scelta rischia di stravolgere gli attuali rapporti di collaborazione ausiliaria degli organi di polizia giudiziaria rispetto al magistrato responsabile delle indagini, senza scongiurare il rischio che ciascun corpo di polizia giudiziaria compia investigazioni in via del tutto autonoma rispetto ad eventuali iniziative attivate da altri settori, ponendosi in contrasto con direttive impartite dal Pm. Nella relazione introduttiva del ddl governativo sono esplicitate le ragioni poste a fondamento delle modifiche proposte; in essa, infatti, si afferma che si è voluto distinguere “più nettamente i compiti della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, per creare i presupposti di una maggiore concorrenza e controllo reciproco”.
Il parere del Csm, invece, sottolinea il tendenziale contrasto della proposta di riforma con gli articoli 109 (“l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”) e 112 (“il Pm ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”) della Carta fondamentale soprattutto perché la sottrazione al Pm dell’iniziativa nella ricerca delle notizie di reato e l’attribuzione del relativo potere-dovere in via esclusiva alla polizia giudiziaria finirebbe per consegnare delicate scelte investigative a quest’ultima che, com’è risaputo, dipende in via gerarchica dal potere esecutivo. Quest’ultimo sarebbe in grado di condizionarne pesantemente l’attività, con gli inevitabili rischi di interferenza di scelte politiche nell’amministrazione della giustizia a scapito dei principi di legalità, di eguaglianza davanti alla legge, di obbligatorietà nell’esercizio dell’azione penale.
In realtà, è innegabile che, per quanto efficiente un sistema repressivo penale possa risultare, gran parte dei reati commessi rimangono impuniti: l’impossibilità di perseguire tutti i reati e la conseguente necessità di scelte selettive rendono l’obbligatorietà dell’azione penale un valore ed un principio non solo astratto, ma – paradossalmente – costringono a chiarire quali siano le concrete opzioni poste alla base di tale selezione. In tal senso, non basta (come invece fa il Csm nel proprio parere) accontentarsi di prescrizioni squisitamente formali per essere sicuri della reale indipendenza del Pm, o dell’effettività di un controllo sulle risorse destinate ai soli reati su cui si focalizza l’attenzione investigativa. Forse, proprio l’impossibilità di arginare altrimenti le scelte discrezionali di troppi Pm può aver indotto l’esecutivo a rimodulare i rapporti tra le Procure della Repubblica e gli organi di polizia giudiziaria ad esse collegati, anche se il tentativo proposto dal Governo è ben lungi dall’essere adeguato ad una reale soluzione del problema.
Il ddl sulla riforma del processo penale, in ogni caso, è stato già rinviato all’autunno dal Senato in tempo perché, ove lo si voglia, si ponderino i rilievi critici espressi dal Csm che, anch’esso dopo la pausa estiva, prenderà in considerazione la restante parte della proposta governativa.
(Saverio Mancini)