Dalla manovra economica al problema del Sud il passo è breve. È stato il leader del Mpa, Raffaele Lombardo, ad abbandonare l’aula, seguito dai suoi, durante la discussione del maxiemendamento, protestando contro una politica del governo appiattita sull’asse Tremonti-Lega. Si è difeso, il ministro, facendo notare che da tempo studia una soluzione per il Mezzogiorno, e rilanciando l’ipotesi di una Cassa per il Mezzogiorno. E non si è fatta attendere la risposta di Berlusconi, che domenica ha annunciato «un piano innovativo» per il Sud e lo sblocco dei fondi Fas.



«La politica economica del governo – osserva Geronimo, commentatore e opinionista – è afflitta dalla solita ottica di breve periodo». Il problema del Sud? «È frutto delle difficoltà di carattere politico emerse nel governo e nella maggioranza».

Ci si aspettava una manovra più restrittiva verso gli istituti di credito. La cosiddetta stretta sulle banche alla fine non c’è stata.



Sul problema delle banche si passa da un eccesso all’altro. Quando si immagina di poter garantire il credito alle aziende in modo dirigistico, altro non si fa che un buco nell’acqua. Perché nessuna autorità politica può imporre ad una banca di poter dare credito ad aziende che non hanno un minimo di merito creditizio o una prospettiva di sopravvivenza.

E l’altro estremo quale sarebbe?

La finanziarizzazione dell’economia, cioè l’industria del denaro fine a se stesso e non come produzione di beni e servizi. L’esito è che oggi si tenta, in un modo o nell’altro, di ottenere delle istituzioni bancarie che “rispondano” alle indicazioni dello stato. Ma alla fine il buon senso ha prevalso: la responsabilità che è propria dei dirigenti bancari non può essere controllata dal prefetto, ma nemmeno imposta dal governo.



Lei stesso però ha affermato, in una sua recente lettera a Finanza&Mercati, che gli istituti di credito possono “compiere indenni piccoli e grandi soprusi” e godono “di immunità (e privilegi) sconosciute a qualsiasi altro operatore economico”. Servono leggi? O basta appellarsi alla responsabilità dei banchieri?

 

Innanzitutto serve una stabilità dei mercati finanziari, che devono cominciare ad essere sottoposti ad alcuni, precisi divieti. Non basta che ad un’economia globale corrisponda un diritto globale. Occorre che ai mercati finanziari si impedisca, per esempio, la distribuzione dei derivati nel mercato retail, oppure che si vieti ai futures di fare il prezzo sulle materie prime. Veniamo, è bene non dimenticarlo, da un periodo in cui si assumevano rischi in grande quantità, si portavano all’attivo impieghi dati con troppa facilità, si distribuivano i rischi all’intera platea degli investitori e si incassavano i relativi bonus. Attività come queste non possono sottostare alla teoria del pendolo; vanno smontate e basta. Non si può togliere per questo alle banche la valutazione del merito di credito. A questo però deve far riscontro una crescita ulteriore degli impieghi verso le aziende.

In buona sostanza, cosa rimprovera al ministro Tremonti?

La sua politica economica – e di conseguenza la politica economica del governo – è afflitta dalla solita ottica di breve periodo. I molti provvedimenti mi paiono emblematici di una navigazione a vista, del far provvedimenti più sotto l’onda emozionale del castigare o del premiare, che non per produrre ordine e stabilità. Si ricordi la riforma della deducibilità degli interessi passivi, nel 2008, e quello che ha voluto dire per le banche.

Fare o non fare le grandi riforme, per le quali però il governo dice di non avere i soldi, o di voler rimandare per non compromettere la stabilità sociale?

Le rispondo utilizzando i dati forniti dallo stesso governo. Se nello stesso Dpef gli obiettivi programmatici posti dal governo sono una crescita nel 2012-2013 di appena il 2% l’anno, in quattro anni non avremo né il risanamento dei conti pubblici, né la risoluzione del problema del Mezzogiorno. Continueremo ad essere quello che siamo stati dal 1995 ad oggi: la Cenerentola d’Europa per tasso di crescita. In questi 15 anni siamo cresciuti un punto in meno della media dei paesi della zona euro. Senza scendere ora nel dettaglio delle singole azioni della politica economica,

Basta osservare però che il risultato delle singole azioni che il governo pensa di porre in atto nella migliore delle ipotesi vale una crescita del 2%. Non basta.

Corrado Passera, nell’intervista a Repubblica, a una domanda sulle grandi opere ha risposto: «non stiamo parlando di cifre che cambiano il profilo del nostro debito pubblico. Molte risorse ci sono già, e vanno scongelate o meglio utilizzate (…). C’è una spesa corrente sulla quale si può risparmiare ancora molto. E soprattutto c’è un livello vergognoso di evasione fiscale». Che ne pensa?

Faccio due rilievi. Innanzitutto la politica di bilancio che Tremonti giustifica col debito pubblico vedrà un aumento del debito stesso. Quando al termine di questi due anni, 2008 e 2009, arriveremo ad un deficit del 5,3% – secondo me qualcosa in più – e il debito pubblico sarà al 115-116%, e l’anno prossimo al 120%, sarà chiaro che questa politica ha comportato un aumento del debito, ma senza che ci siamo indebitati per favorire l’economia reale. Gli altri paesi si sono indebitati, ma per favorire la ripresa. All’indebitamento di oggi e di domani corrisponderà un aumento del gettito tributario nei prossimi anni.

Ma il prezzo della ripresa passa per la creazione di nuovo debito pubblico?

… mi lasci fare il secondo appunto. Ci sono residui passivi, cioè mancati pagamenti di prestazioni o di obblighi già contrattualmente definiti dalla Pa verso terzi – non solo le imprese quindi ma anche gli enti locali. Anche questo contribuisce ad aumentare l’“asfissia finanziaria”. Da un lato lo stato chiede alle banche di finanziare le aziende, ma dall’altro non salda con le aziende il proprio debito. È una contraddizione che in altri tempi alla Camera sarebbe naturalmente emersa.

Cosa intende dire?

Sto rispondendo alla domanda sul debito pubblico. E la risposta è politica, non tecnica. Gli altri ministri, ma anche la maggioranza nel suo complesso, avrebbero dovuto mettersi sulle spalle una prospettiva di più grande e autorevole forza.

Negli ultimi giorni è riesploso, in forma nuova, il problema del Sud.

Appunto. È un frutto delle difficoltà di carattere politico che stanno emergendo nel governo e nella maggioranza. C’è questo disagio perché si è consolidata una prassi dell’ipse dixit: Tremonti ordina su tutto, sotto la minaccia di dimettersi, gli altri ministri seguono ma viene il sospetto che non conoscano i provvedimenti proposti dal ministro. La finanziaria del 2008 non venne approvata nel tempo record di 9 minuti? Com’è possibile prendere scelte importanti per lo sviluppo del paese, come quelle che derivano da un confronto serio sulle scelte e quindi sulle voci di spesa, in 9 minuti?

Ma tutto questo col Sud che c’entra?

Il problema del Sud, com’è riemerso in questi ultimi tempi, è l’esito di una mancanza di collegialità nel governo. Il primo atto esplicito che ha messo in luce il malcontento lo si è avuto durante il voto del maxiemendamento, quando l’Mpa di Lombardo è uscito dall’aula. Quando le scelte di politica economica rinunciano ad una visione di lungo periodo e a rappresentare determinati interessi, emergono istanze di riorganizzazione politica come quella che alimenta il progetto di un partito del Sud. Ma il problema non sta nel partito del Sud, sta nell’assenza di una politica di ampio respiro.

Cosa serve di più al Sud oggi?

La selezione di una nuova classe dirigente. Fino al ’92 la selezione politica, nel bene e nel male, è stata compito dei partiti e degli elettori. Con la fine dei partiti è venuto meno questo ruolo e un sostituto non lo si è trovato. Dico sempre che i partiti non sono forse la cosa migliore per esercitare la democrazia, ma è anche vero che finora non se ne è trovata una migliore. Prendiamo il caso Campania: vent’anni fa un Bassolino sarebbe stato “processato” innanzitutto dentro il suo partito, che avrebbe avuto tutto l’interesse ad affrontare, e risolvere, il deficit di rappresentanza politica e morale.