Caro direttore,

I ripetuti interventi del presidente Napolitano stanno suscitando dibattito. Dalla “lettera di accompagnamento” alla firma del provvedimento sulla sicurezza è stato un crescendo di perplessità; a questo proposito mi preme sottolineare quanto segue.

Il Presidente della Repubblica è organo di garanzia. Almeno su questo suo essenziale ruolo non dovrebbero esserci dubbi. Le sue attribuzioni, di vario genere e rilievo, molte delle quali sono condivise con il Governo, riguardano, tra l’altro, le funzioni normative: le leggi, gli atti aventi forza di legge (i decreti-legge e i decreti legislativi), nonché i regolamenti.



Nei mesi scorsi ed anche in questi giorni, il Presidente della Repubblica ha manifestato formalmente al Governo, attraverso note scritte, il proprio punto di vista circa la conformità alla Costituzione di decreti-legge e leggi. E ha promulgato il testo, in ragione dei contenuti degli atti, a motivo della grave congiuntura economica, formulando rilievi che a qualcuno sono apparsi condizioni illegittime. O promulga o non promulga. Secondo Di Pietro, non avrebbe dovuto promulgare.



Per quel che mi riguarda, sono dell’opinione che abbia fatto un uso del tutto appropriato delle sue facoltà. Infatti, le sue obiezioni possono riguardare sia il merito politico sia la legittimità costituzionale. Quanto alla legittimità costituzionale, egli può argomentare come crede: circa i presupposti del decreto-legge (ci sono o no “casi straordinari di necessità e d’urgenza”?), circa il rispetto della posizione e delle prerogative di un organo di rilevanza costituzionale (la Corte dei conti), circa la violazione dei diritti fondamentali, e via dicendo. Il Governo è libero di tenerne conto oppure no e non può dolersi né di atti presidenziali negativi né – tanto meno – di suggerimenti che hanno l’unico scopo di evitare un conflitto.



Il conflitto di attribuzioni non è un rimedio di per se stesso patologico. È lo strumento attraverso il quale la Corte costituzionale dichiara a chi spetta esercitare un dato potere. Inveire conta poco. Anzi, nulla. Ed è espressione, in primo luogo, di scarsa sensibilità istituzionale.

Mario Bertolissi