Allora, dove eravamo rimasti? Un mese – ormai una vita – fa, il 21 settembre, si commentava il gioco del pallottoliere che sembrava in cima alle pre-occupazioni (nel senso che avrebbe avuto ben altro di cui occuparsi) del presidente del Consiglio, che – nel tentativo di raggiungere l’agognata autosufficienza da Gianfranco Fini – riceveva Nucara o Pionati e mandava messaggi all’Udc siciliana di Calogero Mannino e Saverio Romano. Provammo a sostenere che, quand’anche fosse riuscito il “gioco”, sarebbe stata, per Berlusconi, una prospettiva poco lusinghiera andare a una sorta di Prodi bis, con soli due-tre voti di maggioranza, e Nucara, o chi per lui, a prendere il posto del mitico (ricordate?) Turigliatto. Ma il fatto è che, per di più, il “gioco” non è nemmeno riuscito, Fini è ancora lì a fare l’arbitro della contesa.
Ancora prima, ad inizio settembre, avevamo anche provato – sempre invano – ad auspicare un accordo alto con il Quirinale, che poteva essere il vero alleato per aprire la stagione delle riforme. E purtroppo il pantano in cui sembra caduta ora l’iniziativa berlusconiana, con grave danno per il Paese, è figlio proprio di questi passaggi sbagliati e ora tutto si fa più difficile.
Un punto per volta. Fini. Vorrei chiedere oggi se ne sia valsa la pena di decretare la sua cacciata. Vorrei chiederlo, in particolare, a chi ha materialmente steso quel documento nell’ufficio di presidenza del Pdl affermando – con una certa altisonanza degna di miglior causa – che era necessario per “servire il popolo”. Beppe Pisanu, con una saggia quanto solitaria posizione, preferì invece astenersi, sostenendo che le diverse visioni sono «il sale della democrazia».
Ma se oggi persino Vittorio Feltri, che esultò alla cacciata di Fini, è arrivato ad auspicare un serio armistizio con lui, qualcosa vuol dire. Vuol dire che forse il “bastian contrario” era meglio tollerarlo, tenerlo dentro, metterlo in minoranza, semmai. Invece lo si è messo in condizione di costruirsi un partito, di uscire dall’isolamento in cui era caduto, regalandogli insperate solidarietà per via di una scelta politica non spiegata e non spiegabile, se non ai fan che su tutto acconsentono. Se non ai guerrafondai che godono nel vedere il sangue, ma poi non aiutano a governare.
Una cosa è certa, però. Ora il partito Fini lo ha fatto, o meglio è costretto a farlo, ed è ben ingenuo dopo aver tentato – ripetutamente – di atterrarlo pensare che lui possa suonare lo stesso spartito esponendosi, con il suo labile elettorato potenziale (tutto legato alla fragile struttura della Rete) alla facile accusa di aver fatto tanto chiasso per acconciarsi, alla fine, a digerire ogni cosa da Pdl e Lega.
Accusa già risuonata, per Fini, ora che ha acconsentito al lodo Alfano retroattivo. Ma poi si è voluto – anche lì – strafare. Non solo retroattivo, ma anche reiterato. Cerchiamo di spiegare. Retroattivo, passi. Nessuno scandalo. Se uno scudo lo si deve dare al presidente del Consiglio, finché resta tale, non serve distinguere sulla genesi temporale del processo. Ma reiterarlo, perché? E le cose macchinose, come sempre, autorizzano le più subdole delle interpretazioni. Ed eccola, la più subdola di tutte: se si andasse al voto, magari dopo aver consumato definitivamente la rottura Pdl-Fini, si costringerebbe quest’ultimo ad allearsi con il Terzo Polo (Udc, Rutelli e magari qualcun altro, tipo Montezemolo).
In un simile scenario, per niente da scartare, con la legge elettorale che vige per la Camera e il mega-premio di maggioranza che prevede per la coalizione più votata (anche, in ipotesi, con un 35-40 per cento), Pdl e Lega vincerebbero di sicuro, essendo davvero difficile ipotizzare che tutti gli altri possano dar vita a una coalizione-armata Brancaleone contrapposta. Ma al Senato, dove vige un altro sistema elettorale, un Terzo polo che superi in tutte le regioni la soglia prevista dell’otto per cento prenderebbe un cospicuo numero di senatori e sarebbe determinante, con tutta probabilità.
Questo dicono tutti i sondaggi, anche quelli in mano a Berlusconi: una verità complicata da raccontare e scomoda per tutti perché spariglierebbe i giochi, e infatti nessuno la racconta. Ma nei Palazzi, lontani dalla gente (altro che servire il popolo) qualcuno ha fatto i conti che, sommando deputati e senatori (perché il presidente della Repubblica si elegge con le Camere riunite in seduta comune) in questo quadro, Pdl-Lega avrebbero comunque la maggioranza per la corsa al Quirinale, nelle sedute comuni, perché i deputati sono il doppio dei senatori.
E allora, la diavoleria ipotizzata, mancando, in tal caso, una maggioranza al Senato, sarebbe quella di tenere in serbo il lancio di un sostituto (Giulio Tremonti) con lo scopo di imbarcare anche Udc e finiani, e per Berlusconi si aprirebbe quindi la corsa al Colle più alto. Ci siamo, ecco spiegata l’ipotesi più subdola: il lodo potrebbe essere reiterato anche per chi, dopo averne usufruito a palazzo Chigi, poi venisse trasferito al Quirinale.
E veniamo all’altro attore: il Quirinale, appunto. Ed ecco l’altro errore fatale. Firma quasi tutto, Napolitano, non si mette di traverso più di tanto e fa anche arrabbiare per questo Antonio Di Pietro. Ma ogni tanto qualcosa la chiede anche lui. Da uomo di sinistra, sensibile particolarmente alle problematiche del lavoro, aveva raccomandato al premier – quando questi giurò per l’interim – di cercare una soluzione alta per il dopo-Scajola, e soprattutto di trovarla presto, essendo urgente un ministro dello Sviluppo in una fase di crisi come questa. Berlusconi, invece, è riuscito a scontentarlo due volte, anzi tre.
Ci ha messo tre mesi e mezzo per nominare il suo braccio destro Paolo Romani, sul quale Napolitano gli aveva detto a viso aperto delle sue perplessità, per il legame diretto con Mediaset, dovendosi fra l’altro, Romani, occupare anche di Comunicazioni. E, terzo sgarbo al Quirinale, ci aveva messo meno tempo a inventare, durante l’interim, un ministero inutile alla Sussidiarietà (grande obiettivo che non postulava però la creazione di una nuova poltrona) che è servito solo a battere il record minimo di durata nella storia repubblicana, con le dimissioni lampo di Aldo Brancher. Di sicuro, comunque, Napolitano la nomina di Romani l’ha presa come un’offesa anche personale, basti notare come al giuramento sia arrivato in ostentato ritardo e sia scappato senza neanche dar luogo al brindisi di rito.
In questo quadro, ci si poteva davvero aspettare che il Quirinale evitasse di far presente le sue «profonde perplessità» su uno scudo giudiziario allargato anche al Capo dello Stato? Col rischio, peraltro, di creare un pasticcio istituzionale su una figura per la quale la Costituzione già prevede l’impeachment per alto tradimento o attentato alla Costituzione, ma null’altro. Insomma, Berlusconi avrebbe potuto e dovuto, per il suo stesso bene ma non solo per quello, cercare l’armistizio tanto con Fini, tanto col Quirinale, invece ha preferito contrapporvisi, e quando ha teorizzato la tregua con entrambi gli spazi per siglarla erano già compromessi, in virtù del noto assunto “‘cca nisciuno è fesso”.
Sarebbe stato meglio partire dai temi condivisi. Ora persino Bersani mostra disponibilità sulla riforma fiscale, e il quoziente familiare è un tema tanto urgente tanto – appunto – condiviso, anche dall’Udc e non solo. E non si citi la contrarietà del finiano Della Vedova, se non si vuol sfiorare il ridicolo.
Però, c’è un però. Oggi il quadro politico è un insieme di debolezze. Se è molto più debole chi ha vinto due anni e mezzo fa non è che Fini e Casini scoppino di salute. Per non dire di un’opposizione non pervenuta: Bersani si difende come un leone, ma appare sempre più isolato. Resta la Lega, ma anche Bossi, che se ne fa di un aumento percentuale, in caso di voto, se è una prospettiva di governo a fallire?
Spesso gli accordi alti, come gli armistizi seri, sono proprio il frutto di una somma di debolezze, che invitano a guardare lontano. Come ha provato, ad esempio, a fare Mario Mauro ricordando, dopo tutto, che Pdl, Fli e Udc sono insieme nel Partito popolare europeo e, almeno lì, non hanno litigato. Chissà, allora, che il dibattito politico nel centrodestra dopo Montecarlo e Antigua, non riscopra un po’ anche Strasburgo. Per il bene di tutti. Per servire, davvero, il popolo, o il bene comune dimenticato.