Con la rinuncia di Italo Bocchino all’incarico di vicecapogruppo vicario del gruppo Pdl della Camera si apre la fase due dello scontro fra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Cade la posizione più visibile per il presidente della Camera nell’apparato del Pdl e Fini, nel dare il via libera alla soluzione, si sente ora ancora più libero di proseguire nella sua guerra di posizione, nella quale – c’è da aspettarselo – vorrà affidare un incarico di coordinamento “editoriale” proprio a Bocchino, nell’ambito di Farefuturo o di qualcos’altro che si andrà a inventare.
Caduti a uno a uno i mediatori, da La Russa ad Alemanno, resta solo Bossi, paradossalmente, il solo in grado (e realmente interessato) a tenere aperto il canale di collegamento fra Berlusconi e Fini. Si dirà: ma se è proprio lui il pomo della discordia? Non è così in realtà. Più che lui è lo “schema di Arcore” ad aver indotto Fini a intraprendere la sua battaglia. Nella quale, a volerla analizzare bene, si scopre che – al di la dei toni, delle minacce, al di là dell’affronto a viso aperto senza precedenti, insomma – nei contenuti essa si è persino ridimensionata: niente voto anticipato agli immigrati, nessun riferimento alle intercettazioni, niente distinguo sui temi etici e sulla famiglia.
Quello che Fini non accetta, insomma, non è alla fine questo o quel punto programmatico in particolare, ma una forma di partito nella quale non c’è più spazio per lui né ce ne potrà essere domani. Per lui o per chiunque altro. Uno schema carismatico che consente, ad Arcore, la mediazione fra due leader “plenipotenziari”, che possono decidere la linea della coalizione in quella sede senza vincoli di sorta, in virtù di un mandato pieno dei rispettivi partiti. Anzi. A ben vedere proprio lo “schema di Arcore” postula una visione non burocratica dei due partiti, che dunque non debbono mai produrre niente di scritto, deciso e deliberato al loro interno, sì che i due capi possano incontrarsi, mediare e decidere mettendo, loro sì, nero su bianco.
Bocchino sa come questo crei frustrazione nello sterminato gruppo dei deputati del Pdl della Camera e – con una certa sopravvalutazione della sua figura – aveva pensato di poter essere lui (che non gode nemmeno del sostegno di tutti finiani, come si è visto) il referente di questo senso di inutilità dei deputati del Pdl, comune per la verità alla gran massa dei parlamentari “nominati” del 2008. Cosicché Fini, che stupido non è, ha capito che l’agnello sacrificale Bocchino avrebbe ricompattato le sue truppe già risicate, e forse avrebbe attirato qualche sotterranea simpatia alle sue posizioni, guadagnando per sé – come detto – mani ancor più libere.
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Che accadrà, ora? Difficile dirlo. Fini, di sicuro, è il meno interessato ad andare al voto. E di sicuro, se ci andrà, non lo farà con questa legge elettorale, in grado di maciullarlo. L’ingenuo (politicamente parlando, sebbene autorevolissimo sul piano scientifico) professor Campi, direttore di Farefuturo, si è lasciato scappare con Repubblica qual sia il piano B di Fini: governo tecnico (con il Pdl “berlusconiano” e la Lega all’opposizione) che si occupi di rifare la legge elettorale. Ma questo solo se sarà Berlusconi a chiedere di andare a votare “cacciando” Fini come ha già fatto con Bocchino. In questo quadro, però, non si capisce quale sarebbe l’azzardo maggiore, se quello di Berlusconi di evocare le urne pur di non dare la parola a Fini o se quello di Fini che si allea anche con Di Pietro pur di mettere all’angolo il Cavaliere.
Ecco perché lo scenario delle urne pur riempiendo i retroscena di queste ore resta ancora sullo sfondo.
Si dirà: ma Fini dove va? Attenzione però a non sottovalutare l’aritmetica che ci parla, anche se noi non l’ascoltiamo. Gli aridi dati dell’Istituto Cattaneo sulle ultime Regionali suonano per il Pdl un campanello d’allarme: su 41 milioni chiamati alle urne lo hanno votato solo 6 milioni di elettori, praticamente il 15 per cento scarso di essi. Che sembrano molti di più solo in virtù dell’enorme astensionismo.
Certo, ci sono state le civiche, certo non c’era la lista a Roma, ma due milioni e mezzo di voti in meno in un solo anno non sono pochi per il Pdl, e se gli esiti per la coalizione sono stati comunque molto positivi lo si deve a tre motivi essenzialmente. Il primo: al Nord, la tenuta della Lega (che, per effetto delle aumentate astensioni, cresce in percentuale). Il secondo: al Centrosud l’apporto decisivo dell’Udc e, nel Pdl, dei finiani. Basti solo considerare che in Puglia, dove l’alleanza con l’Udc non c’è stata e si è puntato su un forzista “doc”, il centrodestra ha perso di brutto. Terzo: la crisi depressiva in cui giace il Pd, che di voti ne ha persi ben 4 milioni e mezzo rispetto al 2008, ma, attenzione, “solo” un milione rispetto a un anno fa.
In questo quadro andare alle urne per Berlusconi puntando sullo stato comatoso dell’opposizione (col rischio però di intestarsi la colpa del voto anticipato) potrebbe rivelarsi un boomerang. È evidente, quindi, che Fini spera di poter parlare al 35-40 per cento di astensionisti cronici, delusi dagli attuali assetti, ai quali guarda anche Montezemolo e chiunque altro mediti, oggi, una discesa in campo in politica.
Fini per farlo pensa a un diverso Pdl, o in alternativa, domani, a un diverso partito. Suscitando l’ira funesta del Cavaliere. E in questo quadro, per non ritrovarci a votare molto prima del tempo c’è da sperare solo in due “pacieri”: Umberto Bossi e – naturalmente – Giorgio Napolitano, che – ricordiamolo – sul voto ha l’ultima parola. Ma visto lo stato dei rapporti nel Pdl il loro compito è davvero difficile: Leonardo è già stato “licenziato” dal Cavaliere e neanche Fini se la passa benissimo.