C’è un errore seriale nella carriera politica di Gianfranco Fini, quello di non aver mai saputo selezionare adeguatamente la sua classe dirigente, fino al punto di immaginare che potesse essere Mario Segni, ricorderete, il suo compagno di strada per sfondare al centro. Ma in questo frangente cruciale della sua vita politica, questo ripetuto errore di valutazione potrebbe agire curiosamente a suo vantaggio, visto che fra gli ex colonnelli che aveva voluto nel gruppo dirigente di Alleanza Nazionale, e che poi uno dopo l’altro l’hanno abbandonato, nessuno ha avuto la capacità politica di cogliere per tempo i rischi di una rottura così traumatica, valutando correttamente gli effettivi numeri dei fedelissimi di Fini alla Camera, e nessuno ha quindi saputo convincere Silvio Berlusconi dall’intraprendere questa strada, che si rivela da subito più impervia del previsto.
In realtà 34 deputati (leader compreso) sono un numero di adesioni al nuovo gruppo che forse neanche Fini avrebbe osato sperare. In grado ampiamente di farlo diventare ago della bilancia a Montecitorio, con in più il vantaggio di giocare in casa, essendo lui anche il presidente della Camera, con la possibilità quindi di gestire e orientare passaggi fondamentali. Si dirà che, proprio per questo, sarebbe onesto da parte di Fini, ora che è leader di una parte politica, dimettersi dall’incarico. Ma questa richiesta avanzata con forza da Berlusconi è apparsa subito del tutto velleitaria: forse il gesto sarebbe anche opportuno, ma non essendo dovuto per legge e nemmeno per prassi non era lecito aspettarsi atti di signorilità dal fronte avversario una volta che gli è stata dichiarata guerra.
E per capire come ora si sia legato mani e piedi, Berlusconi, al potere di veto di Fini sui provvedimenti non condivisi, basterà solo ricordare le svariate volte che la maggioranza è andata sotto alla Camera, già prima dello strappo e non certo per colpa dei finiani. Numeri ampi erano già messi a repentaglio da stuoli di deputati del Pdl con doppio incarico (sindaci e soprattutto presidenti di Provincia), per non dire dei ministri e dei Ghedini vari spesso impegnati in adempimenti importanti, che non possono lasciare. E se lo sterminato gruppo del Pdl faceva fatica già prima a garantire i numeri al governo, figurarsi ora come possa pensare di agire in autosufficienza senza concordare preventivamente con i finiani (come già avviene con la Lega) ogni passaggio cruciale.
E figuriamoci, d’altro canto, se sarà più possibile per la Lega, per far passare forzature clientelari come quella sulle quote latte, andare a parlare solo con il Pdl, by-passando il nuovo e scomodo alleato di “Futuro e Libertà”. Certo, al Senato i numeri non sono tali, per Fini, da assicurare lo stesso scenario. La maggioranza, a Palazzo Madama, ha sempre avuto minori problemi e i risicati 10 senatori che si preannunciano per Fini non sono in grado di alterare gli equilibri. Pur tuttavia il meccanismo del bicameralismo perfetto (che rende necessario per ogni provvedimento il doppio passaggio parlamentare) porta ad escludere che si possa parlare di maggioranza solida e autosufficiente dai finiani, e non è quindi possibile relegarli al ruolo aggiuntivo di parenti poveri.
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Il primo tempo dello scontro diventato “mattanza”, cosa che Fini aveva cercato di evitare all’ultimo momento con l’intervista al Foglio, si è chiuso quindi sull’uno a uno, e ora le due squadre non vedono l’ora di andare a ritemprarsi negli spogliatoi delle vacanze estive per capire il da farsi, conteggiando meglio le truppe e calcolando meglio le strategie. Berlusconi così ha rinunciato al discorso al Senato, che era in programma martedì, nel quale voleva annunciare una riforma della giustizia contro i magistrati politicizzati, e anche sulle intercettazioni ha preferito rinviare tutto.
Fini dal canto suo, è probabile (ma dovrà deciderlo con i suoi) che spinga per rinviare a settembre la mozione di sfiducia contro il sottosegretario alla Giustizia Caliendo, per evitare subito la prima divaricazione dalla maggioranza con le conseguenze del caso. Non si sente infatti pronto al voto, Fini, e soprattutto non con questa legge elettorale, che dà un vantaggio enorme al partito di maggioranza relativa, alla Camera (con un forte premio di maggioranza) e anche al Senato rende difficilissimo ai partiti medio-piccoli superare regione per regione l’alta soglia, fissata all’otto per cento.
Ne sa qualcosa l’Udc che l’ha superata solo in Sicilia buttando all’aria centinaia di migliaia di voti raccolti in Calabria, Puglia e Campania, rimanendo sotto lo sbarramento per poche centinaia di voti. Ma Casini e Fini non sono nati ieri, e in politica sono nati anche prima di Berlusconi, cosicché in questi giorni hanno già ipotizzato in segreto una prima contromossa, cioè quella di fare delle liste comuni, al Senato, se si dovesse andare alle urne con soluzione traumatica, per evitare il rischio, andando da soli, di non portare a casa alcun senatore, in molte regioni. Cosicché l’altra novità di questi giorni è che Casini e Fini hanno ricominciato stabilmente a sentirsi.
Certo: ogni volta il presidente della Camera è costretto a sentire le ironie del suo predecessore per il fatto di dire oggi quel che Casini andava dicendo già ieri, scegliendo di restare alla larga del predellino di piazza San Babila in cui il progetto del Pdl fu lanciato. Ma al di là delle code polemiche i due hanno intanto già messo a segno un primo risultato: evitare di farsi mettere uno contro l’altro dal Cavaliere. Fini resta nella maggioranza, Casini resta all’opposizione, senza prestarsi a donazioni di sangue sostitutive.
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Ma è di tutta evidenza come, in questa situazione, per Berlusconi la tentazione del voto
anticipato resti forte, e potrebbe essere rispolverata a settembre, alla prima occasione (che si chiami Caliendo, legittimo impedimento, giustizia, intercettazioni o federalismo) nella quale Fini, volendo far pesare il suo nuovo ruolo politico autonomo, dovesse mettersi di traverso, con conseguente apertura formale della crisi. E qui davvero si aprirebbe uno scenario insondabile. Umberto Bossi ha già fatto sapere che schiererebbe 20 milioni di persone se si pensasse a un governo tecnico, la Brambilla – che ha fatto bella mostra di sé alla festa di Gianfranco Rotondi, ma questo non c’entra – schiererebbe di certo i Promotori della Libertà.
Ma non è colpa di Napolitano se questa maggioranza (che godeva in astratto di numeri senza precedenti) non è stata in grado di cambiare la Costituzione sulla quale il capo dello Stato ha giurato, per cui lui sarebbe costretto comunque, prima di sciogliere le Camere, di tentare altre strade, anche per fronteggiare una crisi tuttora piena di incognite per rispondere alla quale, in tre mesi (vogliamo ricordarlo?) il governo non è riuscito nemmeno a trovare un nuovo ministro dello Sviluppo economico. Già, ma quale sarebbe la via d’uscita? Un nuovo esecutivo di emergenza, con più ampia maggioranza, e alla guida ancora Berlusconi? Ipotesi poco probabile, il Cavaliere sentirebbe puzza di trappoloni e di “teatrino della politica” e farebbe saltare il tavolo.
E allora l’unica alternativa alle urne sarebbe davvero quel governo tecnico che Bossi con il suo intuito politico ha già fiutato come rischio. E la sorpresa potrebbe venire proprio al Senato, dove per ora i numeri sembrano ancora rassicurare Pdl e Lega. Per ora. Perché la sensazione è che Fini, assestata la botta alla Camera con 34 deputati, al Senato abbia deciso di non strafare. Nessuna fusione con i tre senatori dell’Mpa di Lombardo, nonostante l’intesa sancita da tempo a doppio filo in Sicilia, per tenere in piedi la Giunta regionale, nessuna fusione neanche con “Io Sud” di Adriana Poli Bortone, che potrebbe restare, per ora, nel gruppo misto.
Ma l’altro asso nella manica tenuto coperto è il senatore Giuseppe Pisanu, che già si segnalò per il suo voto di astensione nella direzione che sancì il primo strappo con Fini. Ma se la situazione si andasse logorando ulteriormente, se Berlusconi ad esempio dovesse andare all’attacco sulla magistratura, sulla legalità e sulle stragi di mafia, Pisanu, anche nel suo ruolo di presidente dell’Antimafia potrebbe scegliere di marcare ulteriormente le distanze, portando con sé una piccola, e forse neanche tanto, pattuglia di senatori in grado di alterare gli equilibri anche a Palazzo Madama.
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C’è un piccolo laboratorio politico, infatti, che si riunisce di tanto in tanto a Montecitorio, formato dal trio Fini-Casini-Pisanu, per fare valutazioni politiche e per rafforzare una visione comune sulle cose che fra loro già c’è. Si sa che se Berlusconi dovesse scegliere le urne Fini e Casini (ma anche il Pd) farebbero di tutto per cambiare prima questa legge elettorale che rischia di stritolarli.
E vuoi vedere che il presidente incaricato di un governo tecnico (che avrebbe appunto il compito solo di affrontare la crisi e di cambiare la legge elettorale) possa uscire proprio da questo laboratorio di Montecitorio? Insomma: un governo tecnico guidato da Giuseppe Pisanu? Ipotesi surreale? Perché, c’è un’altra via più realistica da poter ipotizzare oggi, beninteso, nel rispetto delle regole del gioco?
Dopotutto anche il passaggio dalla monarchia alla repubblica ebbe bisogno di un referendum per essere sancito, nonostante anche allora i milioni di italiani scesi in piazza. E per cambiare le regole di quella che resta oggi, nonostante tutto, una repubblica parlamentare, e farla diventare presidenziale o federale, sarebbe bastata una riforma a maggioranza con successivo referendum di conferma. Ma l’ultima volta che si è provato a farlo è andata male, gli italiani hanno detto di no.
Ed allora, se la Costituzione resta questa il momento di andare al voto, piaccia o non piaccia, lo decide ancora il Capo dello Stato, che nel supremo bene del Paese, in un crinale difficile della sua vita sociale ed economica, deve studiarle tutte prima di far precipitare l’Italia nel pieno di una crisi istituzionale dall’esito tutt’altro che scontato. Resta solo un’ultima annotazione, a margine. E un piccolo deferimento ai probiviri anche per il deputato del Pdl Giorgio Stracquadanio che straparla e ipotizza un “trattamento Boffo” per Fini, no? E qualcuno più avveduto, nel Pdl, che almeno prenda le distanze da simili personaggi, no? O vogliamo teorizzare che le carriere (politiche e non) degli avversari, in Italia, si stroncano con i falsi dossier?