Il Pd è diviso. Non, in realtà, su tutto. Ma su alcuni elementi fondamentali sì. Dalla Direzione Nazionale è emerso come lo sia, in particolare, sulla questione referendaria. Per Arturo Parisi, promotore dei quesiti, non è accettabile l’atteggiamento di tiepidezza assunto dal partito– ma soprattutto da Bersani – prima del successo ottenuto, con la raccolta di un milione e 200mila firme. Tantomeno lo è il tentativo successivo di intestarsi la vittoria. Quindi? Bersani si deve, forse, dimettere? A quanto si era capito, era stata questa la richiesta di Parisi. Che, dal canto suo, ha successivamente negato, ribadendo le sue critiche alla linea della segreteria. Bersani non è rimasto in silenzio, e ha replicato, al termine dei lavori: «Stupisce che ci siano dirigenti che, invece di valorizzare il lavoro del partito, lo azzoppino». Che dire? «Come al solito il Pd quando sente odore di possibile vittoria, inizia a dividersi e mostrare le sue debolezza interne. Una tendenza genetica», dice Antonio Polito. Sta di fatto che, nel corso della Direzione, sono volate parole grosse.
Normale dialettica interna o è qualcosa di più?
Prima sottotraccia, ora in maniera più manifesta, è riemersa nel Pd la volontà di riaprire la questione della leadership del partito. Che può essere chiusa da un’emergenza temporale, se si vota presto. Ma che diventerà sempre più determinante e “sanguinosa” se i tempi si allungano. In questo gioco, Parisi si presta molto bene a fare da rompighiaccio, non disdegnando la provocazione.
Cosa cambia col passare del tempo?
Se si vota nel 2012, come preferirebbe Bersani, si dà per scontato che sarà lui il candidato del Pd, anche se dovrà affrontare, durante le primarie di coalizione, Vendola, magari Di Pietro e forse Matteo Renzi. Ma il vincitore sarà lui. Se si va al 2013 in molti – basti pensare a Campi e Vassallo, costituzionalisti di area veltroniana – sostengono apertamente che si dovranno rifare le primarie interne al partito per deciderne il segretario.
Chi si candiderebbe contro Bersani?
Matteo Renzi, anzitutto. I veltroniani, inoltre, voterebbero di sicuro un candidato alternativo a Bersani. E poi c’è Rosi Bindi. Oggi è alleata del segretario. Ma se si riapre la battaglia interna credo che non disdegnerà di correre contro di lui. Non solo: con il referendum, e il risultato di più di un milione di firme, nell’area di Franceschini è sorta la convinzione che le circostanze si siano rimesse in moto e che le alleanze si possano, quindi, ridisegnare.
Posto, invece, che si vada a elezioni prima di una nuova legge elettorale, con chi si alleerebbe il Pd?
Direi che l’ormai famosa foto di Vasto (che ritrae Bersani con Vendola e Di Pietro ndr) descrive la realtà. Bersani si sta accomodando su un’idea di sinistra ristretta. Anche perché sta capendo che le uniche chance di diventare premier dipendono da un’alleanza così costituita. Nell’eventualità, infatti di una partnership con il centro, non è detto che sarebbe il Pd a esprimere il candidato premier. Con Sel e l’Idv, invece, sarebbe lui. E potrebbe anche vincere le elezioni.
Bersani, quindi, deve fare in fretta. Quali fattori potrebbero accelerare il processo?
La discussione sulla legge elettorale è potenzialmente in grado di sfasciare una maggioranza. Ci sono forze in Parlamento che dal ritorno del Mattarellum verrebbero spazzate via. Basta pensare al gruppo dei Responsabili. Ci sono, inoltre, centinaia di parlamentari che sanno che non sarebbero rieletti. La spinta a non cambiare la legge elettorale è così forte che potrebbe provocare il venir meno della maggioranza. Alcune sue componenti potrebbero abbandonarla prima del tempo.
Che posizione hanno assunto i due principali partiti al governo?
Gli stessi Pdl e la Lega non consentiranno di andare al referendum. Non vogliono che si voti, infatti, con la legge elettorale che ne verrebbe fuori. Faranno di tutto, quindi, per staccare prima la spina e andare a elezioni anticipate. D’altra parte non è casuale la repentina conversione di Bersani e D’Alema al referendum: nasce dalla consapevolezza che rappresenti la pistola puntata alla tempia della maggioranza per sciogliere al più presto le Camere. E di andare alle urne il più presto possibile, prima che si alterino gli attuali equilibri all’interno del Pd. Con la segreta speranza che il candidato del centrodestra sia sempre Berlusconi…
Prego?
Dicono sempre che si deve dimettere. Ma in realtà a loro non dispiace affatto che si ostini nel suo logoramento fino alle prossime elezioni.
Mettiamo, invece, il caso che non si ricandidi. Ci saranno realmente delle primarie?
Il Pdl ha dato vita ad una segreteria politica, se ne è parlato tanto. Mi sembrerebbe inevitabile a questo punto. Ma questo non accadrà, Berlusconi non si metterà da parte.
Quindi? Secondo lei cosa intende fare?
Scioglierà il Pdl, inventerà un nuovo partito, dal punto di vista elettorale più accettabile.
Tornando alla Direzione. Secondo Stefano Fassina la lettera segreta della Bce è un’invasione di campo di un organo non democraticamente eletto. Secondo Enrico Letta, un atto corretto. Anche su questo si è litigato. Le due posizioni riflettono anch’esse, all’interno del Pd, divisioni più profonde?
La questione formale rivela un dissidio sui contenuti. Fassina non è d’accordo con la ricette indicate dalla Bce, insegue una ricetta più socialista per uscire dalla crisi. Spera, infatti, che nell’arco di pochi anni in Francia e Germania tornino governi di sinistra e si riduca la politica dell’austerità. Letta pensa, invece, che le politiche della Bce siano corrette. Non a caso è sostenitore di un governo tecnico guidato da Monti. Sostanzialmente, credo che la posizione di Fassina sia maggioritaria nel partito.
(Paolo Nessi)