Con la franchezza e il pragmatismo dell’imprenditore orobico del Nord, il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha centrato il problema. È stato chiarissimo: le imprese – soprattutto al Nord, dove le tasse si pagano – stanno morendo sotto il peso del fisco. Non solo loro, per la verità, muoiono per il carico fiscale, ma anche i privati cittadini. Il problema è tutto qui. Oggi, la Questione settentrionale è essenzialmente un problema di vessazione fiscale. Un problema di schiavitù fiscale che può innescare un travolgente e incontenibile meccanismo di identità politica. E quindi di consenso elettorale. Questa è la sfida che ha lanciato il segretario federale della Lega, Roberto Maroni, organizzando, al Lingotto di Torino, gli Stati generali del Nord.
In Francia, l’istituto degli Stati generali si configurava come il solenne rito della riconciliazione nazionale fra i tre ordini – nobiltà, clero e terzo stato – che componevano l’ordine politico d’ancien régime. E venivano convocati dal monarca quando si trattava di analizzare dei problemi rilevanti per il presente e il futuro del Paese, assumendo delle decisioni coerenti. Allo stesso modo, Maroni ha inteso convocare gli Stati generali del Nord per ascoltare il mondo della piccola, della media e della grande impresa. Per raccogliere le loro lamentele, le loro doléances – giusto per restare in tema – e cercare di capire i problemi che devono fronteggiare gli imprenditori al cospetto di una gravissima crisi, che non risparmia nessuno. Per riannodare i fili di un antico e solido rapporto che era ormai sbiadito e profondamente indebolito. Anzitutto per effetto della gravitazione romanocentrica della Lega, nel segno – e nel sogno – di promuovere il cambiamento delle istituzioni dal di dentro.
Ma la riforma federale non è arrivata. Anche perché la rigenerazione dello Stato è impossibile. Ce lo ha dimostrato – sempre per rimanere in tema – Luigi XVI che, nel 1789, convocò gli Stati generali nell’intimo convincimento che lo Stato potesse promuovere la sua stessa rigenerazione. Ma scoppiò la rivoluzione. Una rivoluzione che, oggi, si chiama Euroregione del Nord, obiettivo privilegiato per risolvere la Questione settentrionale. Che è solitaria e non ammette alleanze. La radicalizzazione del confronto politico consente di rinserrare il dialogo con gli interessi organizzati dei ceti produttivi del Nord. Interessi da rappresentare e tutelare per occupare quello spazio politico che s’è dilatato a dismisura a causa della crisi economica.
Ciò perché – e questa è la seconda ragione dell’indebolimento del dialogo della Lega con i ceti produttivi – la Questione settentrionale ha subito una lenta e progressiva metamorfosi. C’è un antico manifesto della Lega – uno dei primi, forse il più noto – in cui è raffigurata una gallina intenta a fare delle uova d’oro che vengono raccolte in una cesta sorretta da una matrona romana. Nella sua semplicità – non banalità, intendiamoci – la gallina dalle uova d’oro riassume con grande efficacia i termini della cosiddetta Questione settentrionale”.
Nel corso degli anni Ottanta il rapporto tra debito pubblico e Pil aveva sforato il 100%; e il parametro massimo contemplato dalle autorità comunitarie era – ed è – il 60%. Non paga di ciò, la classe politica romana, espressione dello Stato burocratico e accentratore, ha proseguito lungo la strada dell’assistenzialismo – che non ha mai prodotto sviluppo – a favore del Mezzogiorno. Ma non potendo più drenare il debito pubblico per effetto dei vincoli comunitari, ha cominciato a saccheggiare sistematicamente – attraverso l’imposizione fiscale diretta e indiretta – le risorse delle regioni del grande Nord per recuperare i fondi necessari al mantenimento delle politiche assistenziali verso il Sud. Insomma, lo Stato di Roma ha messo direttamente le mani in tasca ai cittadini delle regioni settentrionali, quelli che – da sempre, con grande capacità e spirito di abnegazione – lavorano, producono ricchezza e pagano le tasse.
Allora, la Questione settentrionale poggiava su una cultura diffusa nell’ambito dei ceti produttivi, che era – nello stesso tempo – antipolitica e antistato. Era antipolitica perché il lavoro veniva prima di tutto. Assai lontana dalla mentalità dell’artigiano, del produttore, del piccolo imprenditore era l’idea dell’impegno politico, delegato alla cieca alla Dc. Il risveglio, alla fine degli anni Ottanta, è stato traumatico: la Dc – che si era progressivamente meridionalizzata – non aveva per nulla tutelato gli interessi dei ceti produttivi del Nord. In essi albergava pure una cultura antistato poiché lo Stato era presente solo quando si trattava di riscuotere le tasse. Era uno Stato predatore. Esattamente come quello di oggi.
E tuttavia, oggi la Questione settentrionale ha cambiato fisionomia. Quando la Lega è nata e ha cominciato a drenare consenso, la sofferenza era collocabile dal punto di vista geo-economico in una fascia subalpina da Biella a Treviso. Una fascia in cui prevaleva la piccola impresa, il lavoro autonomo, manifatturiero e artigianale. Ai nostri giorni, numerosi indicatori segnalano che il baricentro della Questione settentrionale s’è abbassato e abbraccia una fascia geografica che collega Torino a Trieste e, lungo l’autostrada, si snoda nei principali centri cittadini della pianura padana. S’è abbassato il baricentro e sono mutati gli interlocutori: oggi si tratta della media impresa e del terziario avanzato.
È con questi nuovi interlocutori che Roberto Maroni ha aperto il dialogo. L’obiettivo è quello di diventare – oltre le fratture ideologiche, che non hanno più senso – il partito di raccolta del grande Nord. Il “partito di raccolta” è quello che catalizza il voto territoriale in senso trasversale: al di là degli steccati s’impone e drena vasti consensi che non sono di destra, né di sinistra, non sono tecnocratici, né populisti. È una sorta di sindacato territoriale. Proprio per ciò esprime la rappresentanza esclusiva nella tutela degli interessi organizzati e delle ragioni – culturali, linguistiche, economiche, produttive, sociali – del Nord. La strada, insomma, è tracciata: raccogliere la maggioranza relativa dei voti in Piemonte, Lombardia e Veneto, per poi ambire a quella assoluta. Questa è la Lega di Roberto Maroni, con il suo ambizioso progetto costruito sulla nuova fisionomia della Questione settentrionale. Un progetto proiettato verso il futuro. Nella sua essenza è un disegno davvero strategico perché non si limita a navigare a vista nelle turbolente acque politiche del nostro presente. Ma guarda avanti. Oltre Monti e i professori, oltre Berlusconi e Bersani, oltre Renzi e Grillo, oltre Vendola e Di Pietro. Vola alto, anche oltre le elezioni del 2013.