Non è di certo un comunista, ha tratti da liberale, dicono che gli sia sempre stato simpatico, ed è pure sposato con Nunzia De Girolamo, attualmente ministro alfaniano, ma pur sempre nata e cresciuta politicamente in Forza Italia e nel Pdl. Nonostante sia tutto questo, mai Berlusconi si sarebbe potuto aspettare da Francesco Boccia, deputato del Pd e presidente della commissione Bilancio della Camera, parola tanto gentili: se le carte americane presentate da Berlusconi trovassero riscontri «mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino», ha dichiarato ospite di Mix24, per poi aggiungere, in merito al voto sulla decadenza «in un paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte sull’interpretazione della legge Severino». Alessandro Mangia, professore di Diritto costituzionale presso l’Università Cattolica di Piacenza ci spiega che peso attribuire, nel merito, alle dichiarazioni di Boccia.
La strada delle revisione della sentenza è realisticamente percorribile?
Astrattamente, la revisione (più propriamente revocazione) è possibile laddove intervengano nuovi fatti o elementi che la giustifichino. Si tratta di una forma di impugnazione straordinaria prevista dal codice di procedura civile e da quello di procedura penale, ed attiene al buon senso: è evidente che se, successivamente al passaggio in giudicato di una sentenza, emergono nuovi elementi o ci si accorge che sono stati compiuti degli errori, sarebbe contrario alla logica e alla giustizia non procedere in questa maniera. Credo, tuttavia, che nel nostro caso, si tratti, più che altro, di un’ipotesi di scuola.
Di norma, tali impugnazioni vanno a buon fine?
E’ un evento estremamente raro.
Le testimonianze di cui ha parlato Berlusconi, in ogni caso, possono rappresentare un fattore determinante?
Sarà il giudice a valutare. Normalmente, tuttavia, la mera testimonianza non suffragata da elementi documentali non rappresenta un elemento decisivo al punto da indurre la Corte e rivedere il processo. Per non parlare del fatto che il reato di falsa testimonianza sta nel codice penale oggi come ieri.
Ghedini e Longo pare che abbiano suggerito a Berlusconi di aspettare di avere in mano qualcosa di più corposo.
Mi pare un suggerimento equilibrato.
Francesco Boccia si è anche detto convinto del fatto che sarebbe stato opportuno attendere la delibera della Corte sull’interpretazione della legge Severino.
Credo, francamente, che non si ponga alcun problema di retroattività. Semplicemente, siamo di fronte ad una sentenza passata in giudicato, cui – secondo la legge Severino – dovrebbe seguire un voto delle Camere sulla decadenza. Il problema, casomai, risiede originariamente nella scrittura della Severino, e nel fatto che non si sono considerati i problemi che si sarebbero determinati in virtù dell’articolo 66 della Costituzione (“ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità“). O, meglio, sono stati considerati ed aggirati, dal momento che la prima bozza della Severino prevedeva addirittura la decadenza di diritto del parlamentare a seguito di sentenza passata in giudicato. E siccome questo sarebbe stato in palese contrasto con l’art. 66 cost., ci si è limitati ad aggirare nominalmente il problema scrivendo che le Camere avrebbero dovuto deliberare ex art. 66 cost. Con il che i problemi restavano tutti lì, come abbiamo sperimentato in questi mesi leggendo i giornali.
Ci spieghi.
Se il centrodestra capeggiato da Berlusconi avesse avuto la maggioranza in Parlamento, mi sembra difficile immaginare che le Camere avrebbero mai votato la sua decadenza. E nessuno avrebbe avuto da dire nulla.
A quel punto, cosa sarebbe successo?
Al massimo si sarebbe cercato di sollevare un conflitto di attribuzioni, probabilmente dal giudice dell’esecuzione. Tuttavia se, come io ritengo, l’incandidabilità non è un effetto della sentenza passata in giudicato, ma soltanto un effetto della legge che scatta nel momento in cui interviene una sentenza, difficilmente il giudice dell’esecuzione avrebbe potuto sollevare il conflitto. Ripeto, il problema sta alla base. Si è deciso di estendere ai parlamentari una legge pensata inizialmente per i consiglieri degli enti locali. Il giudice ordinario può sancire la decadenza di un consigliere comunale o regionale. Non può sancire la decadenza dei parlamentari. E’ un problema di separazione dei poteri.
I quali sottostanno all’articolo 66.
Appunto. Ma l’articolo 66, come se non bastasse, va applicato anche in relazione alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Pena i cui effetti, tanto per complicare le cose, discendono direttamente dalla sentenza e vengono inutilmente doppiati dalla legge Severino. A questo punto, mi pare evidente che quel provvedimento fu introdotto per ragioni meramente propagandistiche. Si voleva dare l’impressione di andare ad eleggere un Parlamento di specchiata virtù. E per questo si decise, da parte di tutti, di estendere alle elezioni politiche i meccanismi della legislazione antimafia pensati per gli enti locali. Con il risultato di pasticciare le cose.
Un po’ come quando deputati e senatori si tolsero l’immunità parlamentare…
Esatto. Il vecchio articolo 68 della Costituzione (“senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale […]. Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile“) si sarà anche prestato a molti abusi, ma aveva il pregio di evitare quel conflitto tra le pronunce della magistratura e quelle delle Camere a cui oggi, invece, dobbiamo assistere.