Ieri è stata una giornata dura per la democrazia italiana. Sono venuti al pettine nodi da troppo tempo irrisolti della politica italiana, che l’hanno portata ai limiti della sostenibilità politica e istituzionale. Se questo limite non è stato passato, è perché nella durezza dello scontro tra Letta e Renzi si è giocato “a carte scoperte”, come ormai da qualche giorno era chiaro che sarebbe accaduto, ma fortunatamente il tavolo non è saltato. 



Il rischio c’era, perché entrambi i contendenti sono arrivati all’appuntamento delle decisioni da prendere troppo tardi. Per usare una metafora calcistica, troppo tardi sulla palla, rischiando un tackle che poteva far male più di quanto abbia fatto; a loro, al Pd e al quadro politico. 

Se questo non è accaduto si deve da un lato alla decisione di Renzi di un’assunzione piena di responsabilità per un governo che si proietti fino al 2018, rispondendo così al quesito politico postogli già nella scorsa direzione del partito: sostenere con convinzione il rilancio del governo Letta o assumere con decisione l’attuazione in prima persona dell’agenda politica del Pd, ivi incluso il rischioso dialogo riaperto con Berlusconi. 



Dall’altro al grande senso di responsabilità istituzionale del premier, e gliene va dato atto, che annunciando di salire al Quirinale per le dimissioni ha evitato di spaccare ulteriormente il suo partito, ma più ancora ha evitato lo spettacolo ancora più teso di un voto del Pd contro un governo guidato da un suo esponente. Qualcosa magari più aderente ad una corretta prassi istituzionale, che avrebbe però fatto risaltare ancora di più lo scontro cruento tra il leader del Pd e il presidente del Consiglio, il cui esito, una staffetta a Palazzo Chigi senza passare le urne, è inviso, da un sondaggio empirico ma corposo che gira in questi giorni, al 79% degli italiani. 



Segnale pessimo dello scollamento che c’è tra il paese reale e la politica italiana, che anche quando fa mostra di assumere decisioni non lo fa nei modi che gli italiani si aspetterebbero. Se tutto va come si prevede, e a questo punto bisogna augurarselo nell’interesse di tutti, sarà la terza volta che negli ultimi tre anni un governo non nasce dalle urne ma dal “motore di riserva” costituzionale, in caso di blocco politico-istituzionale, che è il presidio della più alta magistratura dello Stato, il Quirinale. 

È altrettanto evidente, però, che non può che essere – deve essere – l’ultima volta. La tenuta democratica del Paese non reggerebbe oltre a un’eccezione che si fa prassi, a un’impotenza della politica che trova le sue soluzioni o pseudo-soluzioni ai bordi delle istituzioni. 

Perché però sia l’ultima volta, perché agli italiani sia restituita la possibilità di scegliere loro nelle urne chi li governi, il pacchetto di riforme, a partire dalla legge elettorale, su cui Renzi ha puntato, e la cui attuabilità spedita è l’argomento che ha fatto valere con successo nel confronto di questi giorni che lo ha opposto a Letta, dovrà andare in porto nel più breve tempo possibile. 

Ora non ci saranno più alibi, anche per ripensare la legge elettorale in un senso più rispettoso della sentenza della Corte, magari scegliendo la via dei collegi per riportare la scelta dei parlamentari più vicina ai cittadini, e insieme conseguire governabilità e stabilità che escano dalle urne. Dal governo Monti a oggi è dimostrato per tabulas che senza risultati certi nelle urne non c’è stabilità; al più una continuità della legislatura funzionale alla tenuta dei conti dello Stato, certo fondamentale, ma poco più. E questo poco più, a un Paese stremato, non basta.