L’iter delle riforme costituzionali, ottenuto il voto favorevole definitivo delle Aule parlamentari, ha esaurito la fase deliberativa vera e propria ed è entrato nella fase ultimativa, quella che conduce al referendum popolare di conferma (art. 138 Cost.), da svolgersi agli inizi del prossimo autunno, dal quale viene a dipendere il destino effettivo della riforma.
Abbandonata, dunque, la fase travagliata e complessa del confronto parlamentare, dominata dall’intreccio dialettico di ragioni politiche e ragioni tecnico-scientifiche all’interno delle commissioni parlamentari, nutrito dalle tante audizioni di autorevoli esperti, il dialogo (o lo scontro) prosegue ora in sedi diverse, quelle della comunicazione pubblica mass-mediatica. Qui continua il rimpallo tra posizioni, rispettivamente, favorevoli o contrarie alla riforma ma con un linguaggio in parte diverso da quello aulico — e meno aulico — delle sedi istituzionali, o quello elevato del tono dogmatico.
Si tratta di un linguaggio che potremmo convenzionalmente definire più comunicativo in quanto rivolto non soltanto ai “chierici” del diritto costituzionale o della politica “professionale” ma al popolo-elettore, quello chiamato a decidere le sorti della riforma attraverso la manifestazione diretta di volontà popolare. La comunicazione del pensiero politico deve incaricarsi, allora, di lasciar focalizzare l’attenzione dei cittadini elettori sui contenuti della riforma costituzionale, apprezzati secondo l’ottica —inevitabilmente parziale — del soggetto comunicatore. Attraverso il flusso della comunicazione pluralista il cittadino acquisisce quell’informazione necessaria ad un esercizio consapevole del voto referendario a favore o contro la legge costituzionale di riforma.
In altre parole in questa fase il linguaggio della comunicazione pubblica democratica è destinato a variare in ragione del destinatario-consumatore del prodotto (il messaggio comunicativo) che, nell’occasione, è anche cittadino dello Stato democratico, come tale titolare di un vero e proprio diritto alla formazione culturale, anche in chiave di pensiero politico. A tal fine c’è bisogno di una comunicazione di qualità, vale a dire nutrita di sapere e costruita anche su risultati della ricerca scientifica o su posizioni esposte da scienziati della materia, una comunicazione che per questo si rende più credibile ed in grado di assumere un ruolo guida nella formazione di una consapevolezza politica in democrazia. Un processo di comunicazione siffatto, che aspiri ad un ruolo effettivamente formativo del cittadino-sovrano, seppure possa rimanere in principio indifferente rispetto agli attori della comunicazione ed al linguaggio in cui quest’ultima viene espressa, non può fare a meno del supporto di una razionalità argomentativa obiettiva nella costruzione e rappresentazione di posizioni specifiche, che sovente si rivela carente nelle trame della retorica politica.
In una società autenticamente democratica, la comunicazione pubblica libera e pluralista rappresenta in sé un valore, non vincolata ad un obbligo di verità ma condizionata dal vincolo di razionalità che, solo, la rende credibile. Né la dialettica politica né l’espressione tecnico-scientifica che convergono nel flusso della comunicazione pluralista possono essere in grado, perciò, di favorire effettivamente la formazione di una coscienza sociale e politica se si distaccano dal vincolo di razionalità argomentativa che è strettamente funzionale alla comprensibilità del pensiero comunicato.
E’ in quest’ottica che vengono in rilievo le forme della comunicazione pubblica, peraltro strettamente funzionali agli obiettivi perseguiti attraverso di essa: sintetico ed essenziale, composto prevalentemente di slogan più o meno efficaci il linguaggio della politica, più razionale e approfondito in quanto nutrito, oltre che di considerazioni specifiche, di argomentazioni rigorose e congrue, il linguaggio della comunicazione tecnico-scientifica. Quest’ultima infatti non mira tanto a sviluppare un consenso popolare quanto, piuttosto, a divulgare consapevolezze credibili anche in quanto autorevoli, fondate cioè sulla caratura tecnica di chi le rende.
Nel contesto ora descritto, può accadere dunque che la riforma costituzionale sia presentata con accenti diversi o contrastanti, virtuosa o anche “ideale” secondo una certa comunicazione politica; lacunosa, disarticolata e persino pericolosa secondo una visione di parte politica avversa, in fine, complessa, carente, suggestiva o apprezzabile all’occhio tecnico di un costituzionalista. Sul primo versante, il medio comunicativo è per lo più costituito da formule efficaci e sintetiche (contenimento dei costi della politica, democrazia decidente etc.) che colpiscono un lettore-laico (del diritto costituzionale) ma che non corrispondono sempre e senz’altro alla verità “tecnica” dei contenuti del nuovo testo legislativo. Questa comunicazione politica si condensa cioè nell’espressione di un linguaggio che fa leva su topoi ritenuti generalmente comprensibili, definisce in sintesi gli obiettivi politici della riforma e si spiega in funzione di un obiettivo anch’esso puramente politico qual è l’approvazione del referendum, su cui il Governo, per bocca dei suoi esponenti di maggior spicco, dichiara di giocarsi la propria esistenza.
La comunicazione scientifica ragiona analiticamente ed argomenta, sia pure con diversità di vedute, sulle soluzioni recate da quello che potrebbe essere il nuovo testo costituzionale, ne verifica le incongruenze o ne esalta gli esiti migliorativi, si confronta insomma in un quadro di riferimento complessivo. Esso è rappresentato essenzialmente dai valori propri del costituzionalismo democratico, dalla tutela del pluralismo all’equilibrio tra i poteri dello Stato, dai connotati della democrazia parlamentare al ruolo complessivo delle autonomie territoriali, alla condizione dei diritti politici. L’attenzione è posta anche alla coerenza tra sistema dei diritti e principi fondamentali, per un verso, ed assetto organizzativo della forma di Stato e di governo, per l’ altro.
In quest’ordine di idee, non può sorprendere che si intenda il modello riformato come ispirato piuttosto alle ragioni di una democrazia decisionista basata su poteri forti dell’Esecutivo e con un Parlamento chiaramente infiacchito nella sua azione di controllo e di freno all’azione di Governo, oltre che nella consistenza rappresentativa. Tanto non equivale senz’altro ad innescare dubbi di tenuta dell’ordinamento democratico ma a rivelare profilature del nuovo assetto organizzativo perché l’espressione referendaria possa risultare nella decisione consapevole dell’alternativa verso la quale si viene, eventualmente a prestare consenso.
Questo confronto dialettico tra differenti linguaggi della comunicazione pubblica è destinato a procedere fino all’espletamento del referendum costituzionale, dopo, incassato il risultato, la politica riprenderà a praticare il suo proprio terreno, quello delle strategie di azione del Governo e della sua (sempre più sua…) maggioranza, mentre il problema dei termini applicativi della nuova disciplina costituzionale, a cui seriamente dovrà pensarsi in caso di esito positivo del referendum, tornerà fatalmente ad essere soprattutto un discorso tra “chierici”, da svilupparsi nei contenuti di riviste scientifiche per “addetti ai lavori”.