Larga parte del dibattito politico di questi giorni ruota intorno alla decisione con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittima la legge elettorale correntemente designata come Italicum.
Già molti, autorevoli commentatori, anche su queste pagine, si sono interrogati sulle conseguenze, in termini strettamente giuridici e/o di opportunità politica, di tale decisione.
Val la pena però soffermarsi, prima di svolgere qualche considerazione sul merito della vicenda, sulla singolarità rappresentata dal fatto che la discussione trae origine dal breve comunicato stampa diffuso “dal Palazzo della Consulta” (così nel testo) il 25 gennaio scorso.
Ad oggi infatti la sentenza non è stata ancora depositata e, d’altra parte, il nostro ordinamento, per quanto attiene al giudizio di legittimità costituzionale, non prevede l’istituto della pubblicazione anticipata del dispositivo. Né vi sono norme che attribuiscano alla Corte la facoltà di interloquire con il “pubblico” mediante comunicati del genere di quello appena citato.
Non si tratta di una “lacuna” o di uno spazio che possa ritenersi affidato alla libera determinazione dell’istituzione: infatti, “Il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento” (art. 28 l. n. 87/1953).
Diversamente da quanto vale per gli organi costituzionali che entrano a comporre il circuito di indirizzo politico (e anche qui con le dovute distinzioni), l’organo di garanzia giurisdizionale della Costituzione deve agire usando esclusivamente degli atti tipici espressivi delle proprie attribuzioni.
Il ricorso al comunicato stampa — come tale espressamente qualificato sul sito istituzionale della Consulta — con contenuto anticipatorio della emananda sentenza e, soprattutto, di precisazione esplicativa degli effetti di questa, pone oggettivamente la Corte nel contesto delle dinamiche politiche e, anche per la sua destinazione ai media, apre la via alla costituzione di un rapporto di responsabilità politica cosiddetta diffusa.
Il Giudice delle leggi sceglie, insomma, di interloquire direttamente con la pubblica opinione, esprimendo un giudizio senza motivazione (e, dunque, piuttosto una volontà) e spingendosi sino alla (altrettanto apodittica) indicazione degli effetti, interferendo così con l’attività propria, in primo, ma non esclusivo luogo, degli interpreti qualificati (i giudici che hanno sollevato le questioni di legittimità decise il 25 gennaio e il Parlamento).
La scelta così compiuta risalta a maggior ragione ove solo si consideri che, diversamente da quanto vigeva in diversi ordinamenti italiani preunitari e vige tutt’ora in alcuni Paesi occidentali, né gli attori politici, né la pubblica opinione possono conoscere modi e contenuti del procedimento deliberativo della Corte costituzionale, del quale non viene conservata alcuna traccia, anche solo in forma di minuta. Nello stesso senso, del resto, deve leggersi il mancato accoglimento, sino ad oggi, della cosiddetta dissenting opinion: ogni dissenso — almeno ufficialmente (e salvo episodi di insider trading) — resta assorbito nel meccanismo della votazione a maggioranza, essa pure sottratta ad ogni forma di registrazione.
Per quanto attiene al merito della pronuncia, stando a quel che si trae dalla scarna descrizione fornita, la Corte parrebbe essersi attenuta, in linea generale, al proprio precedente specifico del 2014: i correttivi all’eguaglianza del voto (e agli altri principi che a questo si riannodano) sono legittimi, a condizione che rispettino alcune soglie quantitative e (tenuto conto della declaratoria di illegittimità del turno di ballottaggio) modali.
Resta, ed anzi si rafforza, il premio di maggioranza e l’egemonia dei capilista è appena attenuata dall’espunzione del diritto di scelta del collegio di elezione, rimpiazzato dall’alea del sorteggio, che, se non peggiora, certo non apporta alcun miglioramento al rapporto tra collegio e deputato.
Si deve, quindi, ritenere che, ancora una volta, il giudizio di costituzionalità sia rimasto, per così dire, impermeabile alla questione che pure appare essenziale e che sarebbe invece ineludibile: quella cioè dell’incompatibilità tra gli articoli 3, 48 e 67 della Costituzione e il premio di maggioranza, quale che ne sia la graduazione.
Per un verso, infatti, resta il problema — che, come dimostrano i fondamentali studi del nostro Edoardo Ruffini, ha affaticato lungamente la teoria e la pratica delle deliberazioni collettive — di conciliare, tanto più in una “associazione” necessaria, quale, alla fine, è lo Stato (come insegnavano gli antichi maestri del diritto costituzionale), il disposto che vuole il voto eguale (e che già patisce l’eccezione del sistema di deliberazione a maggioranza) con l’effetto di moltiplicazione garantito ai voti confluiti sulla lista che abbia raggiunto una certa soglia, per di più calcolata in rapporto ai votanti e non agli aventi diritto al voto, sottraendo seggi che, altrimenti, spetterebbero ai deputati scelti da altri elettori.
Per altro verso, mentre l’assenza del premio indurrebbe la politica in sede parlamentare alla ricerca e alla composizione di una maggioranza, tale “dono” incoraggia il partito che ne abbia beneficiato ad agire solitariamente, conseguendone un effetto opposto a quello della “governabilità democratica”, se questa deve essere intesa, come pare, nel senso del più ampio concorso possibile alla determinazione della politica nazionale.
In altri termini, simili alchimie assecondano condotte di frantumazione del consenso, perché si risolvono in un’alterazione delle forze del sistema (quasi nell’accezione delle scienze fisiche), consentendo, di contro a quel contrattualismo che si vuole trovare a fondamento della democrazia, abusi delle parti rese egemoni per un surplus di potere che è effetto di legge e non di volontà popolare.