La questione dei cantieri francesi di Saint-Nazare continua ad occupare le prime pagine dei maggiori quotidiani nazionali, ove si sono lette parole di indignata protesta anche di quanti, all’indomani della sua elezione, si erano affrettati a salutare in Macron un nuovo leader europeo, orientato ormai, nella sostanza e nelle forme (si pensi all’Inno alla gioia fatto risuonare sulla piazza del Louvre), ad una dimensione “sovranazionale”.



Qui non interessa tanto il merito della vicenda e le tecnicalità legate all’esercizio, da parte dello Stato francese, del diritto di prelazione sull’intero pacchetto azionario di Stx, società che gestisce i cantieri navali di Saint-Nazare, quanto piuttosto le reazioni che tale determinazione ha suscitato da questa parte delle Alpi. 



E in particolare l’argomento, variamente agitato da politici e commentatori, secondo il quale tale condotta — espressamente motivata con riferimento agli interessi strategici nazionali della Francia — urterebbe contro i principi e le regole dell’Unione Europea, alle quali, viceversa, il nostro Paese, oggi come in passato, si sarebbe sempre fedelmente attenuto, proprio ed anche in relazione al trasferimento in mano francese di importanti complessi produttivi italiani.

C’è persino chi ha ipotizzato una reazione ritorsiva, da parte italiana, consistente nella nazionalizzazione della rete Telecom. Ipotesi che il ministro dello Sviluppo economico si è affrettato a qualificare come “grande fesseria”, ma che, senza arrivare a tanto, può prima ancora scartarsi come di fatto impossibile.



A ben vedere, uno dei nodi della vicenda sta, infatti, nel più intenso grado di integrazione tra il nostro ordinamento giuridico e quello eurounitario rispetto a quanto accade con altri ordinamenti: in vari settori, tutt’altro che secondari, pare quasi che i vincoli europei agiscano presso di noi con maggiore intensità ed efficienza — dalla radiotelevisione all’energia, dal demanio marittimo alle banche.

È un fatto, peraltro, che, con una logica tutta contingente ed occasionalista, quando si profilano difetti di parità delle condizioni di integrazione (con dirette ricadute sulla fattispecie di cui all’articolo 11 della Costituzione, che per cinquant’anni ha rappresentato il fragile fondamento sul quale lo Stato italiano ha costruito la propria adesione all’ordinamento europeo), è diffusa l’abitudine di imputarne le cause ad una sorta di “congiura” (del destino o di altre, ancor meno certe, entità…). 

Se, invece, si volge lo sguardo con un minimo di distacco a quei cinquant’anni di “cammino comunitario” si intravede un “vizio di origine” che ha segnato la nostra (pur comprensibilmente) entusiastica adesione alla costituzione delle Comunità europee, un progetto allora carico di idealità, nella convinzione “di aver dato vita a un processo lineare verso un’integrazione sempre più stretta tra i popoli d’Europa, espressione che ancora risuona nei Trattati europei”, come ha rammentato Biagio De Giovanni (Il Messaggero, 1 agosto 2017).

Quell’adesione si fece ricorrendo ad una semplice legge ordinaria, con la quale si autorizzava la ratifica del Trattato di Roma (come già era accaduto per il Trattato Ceca) e se ne ordinava l’esecuzione, benché gli obblighi assunti comportassero il trasferimento in sede sopranazionale di una parte cospicua delle principali funzioni statali, senza alcuna effettiva compensazione sul piano dei diritti politici dei cittadini e dunque di quel popolo al quale, in forza dell’articolo 1 della nostra Costituzione, appartiene la sovranità così fortemente limitata.

Negli anni seguenti, come esito del confronto tra Corte di Giustizia Cee e Corte costituzionale, quest’ultima avrebbe consolidato l’assunto che l’articolo 11 della Costituzione legittimasse limitazioni di sovranità permanenti (poi rivelatesi vere e proprie cessioni della summa potestas) con assenso di maggioranze parlamentari semplici, benché si trattasse di modificare le scelte istituzionali compiute dall’Assemblea Costituente in forza del mandato popolare del 1946 e fosse quindi lecito dubitare persino che ciò si potesse fare, anche facendo ricorso alla procedura di revisione costituzionale.

Si ha insomma il fondato sospetto che, a partire dal 1957, abbia preso avvio un processo di instaurazione di fatto di un regime marcatamente diverso da quello delineato dalla Costituzione dal 1948, il cui impatto, com’era da attendersi, si è più chiaramente rivelato quando dal mercato comune si è passati — secondo la scansione prevista nel Trattato di Roma — al mercato unico.

Non a caso l’evocazione dell’articolo 11 della Costituzione — che di per sé non sembra giustificare alcuna deroga alla disciplina delle fonti del diritto — è stata accompagnata da riferimenti alla “atipicità” delle leggi di ratifica e di esecuzione dei Trattati, cioè alla loro resistenza all’abrogazione da parte delle “tipiche” leggi ordinarie, e persino dalla sussistenza di una sorta di “consuetudine interpretativa” (accompagnata dalla forza di affermazione, essa pure operante sul piano dell’effettività, dell’organizzazione europea), nutrita da concordi comportamenti degli “attori costituzionali”, che avrebbe consentito l’accennata trasformazione del nostro ordine costituzionale.

Come risultato di tutto questo, l’Italia si è così trovata nella posizione di Paese federato in assenza di una vera e propria federazione e dunque di garanzie politiche e giuridiche di effettiva e giustiziabile eguaglianza rispetto agli altri Stati membri.

Ne potrebbe essere una dimostrazione lo slancio, del tutto unilaterale, col quale, nel 1989, si fece luogo ad una singolare consultazione referendaria per l’attribuzione, al Parlamento europeo, di un mandato costituente, vincolato all’instaurazione di una forma di governo parlamentare: all’esito interno, largamente positivo, fece tuttavia riscontro l’assenza di ogni effettiva conseguenza.

Non importa ora soffermarsi in questa sede sulla possibilità di reintegrare l’ordine normativo costituzionale: qualche segno (problematico) può cogliersi negli sviluppi del noto caso Taricco.

Ma si deve essere avvertiti del fatto che il lungo protrarsi della suddetta “consuetudine interpretativa” ha posto una seria ipoteca sul mantenimento in capo all’Italia di quello status di comunità nazionale sovrana che è il presupposto stesso dell’esercizio del potere costituente: un pericolo che, a mo’ di esempio, nel dibattito dottrinale francese (guarda caso!) indusse a sostenere che nessuna procedura costituzionale avrebbe consentito la ratifica e l’esecuzione del Trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa.

La morale (supposto pure che ce ne sia una) è che l’integrità degli interessi nazionali passa, in primo luogo, per quell’osservanza della Costituzione che l’articolo 54 accosta alla fedeltà alla Repubblica e che si sostanzia (anche) nel dovere di “prendere le norme sul serio”, per parafrasare il titolo di una celebre opera di Dworkin. È quel che gli altri Paesi, a cominciare dalla Francia, continuano a fare.