All’unanimità, dopo aver superato i veti di Polonia e Ungheria, i leader dell’Unione Europea hanno raggiunto l’accordo sul Recovery fund e sul Next Generation Eu. “Ora possiamo cominciare con l’attuazione e la ricostruzione delle nostre economie. Il nostro monumentale pacchetto di ripresa guiderà la transizione verde e digitale”, ha affermato il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, mentre la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha commentato: “L’Europa va avanti” con l’obiettivo di “costruire una Ue più resiliente, verde e digitale”. Soddisfatto anche il premier Giuseppe Conte, che su Twitter ha scritto: “È stato raggiunto in Consiglio europeo l’accordo definitivo sul Next Generation Eu. Questo significa poter sbloccare le ingenti risorse destinate all’Italia: 209 miliardi. Approvato anche il Bilancio pluriennale. Ora avanti tutta con la fase attuativa: dobbiamo solo correre!”. Strada dunque in discesa? Non del tutto, come ricorda Lorenzo Pace, professore di diritto dell’Unione Europea nell’Università del Molise: “Ai sensi dell’articolo 311 dei Trattati la decisione sulle ‘risorse proprie’ per entrare in vigore deve essere approvata anche dai Parlamenti degli Stati membri. Fino a tale momento i fondi del Recovery non potranno essere attivati. Non è possibile prevedere quanto tempo i Parlamenti nazionali richiederanno per questo passaggio, si parla però di circa tre mesi”.
Che cosa ha permesso di sbloccare l’impasse sul Recovery Fund? Quali nodi sono stati sciolti?
Si era creata un’impasse tra l’Unione, da una parte, e la Polonia e l’Ungheria dall’altra, riguardo a una misura normativa al fine di limitare l’uso dei fondi europei da parte di Stati che avessero violato il principio dello “Stato di diritto”. Polonia e Ungheria sono “sotto osservazione” per violazione di tale principio e volevano bloccare questo provvedimento, che è di fatto parte integrante della disciplina del Recovery Fund. Non potendosi opporre all’emanazione di questo atto, in quanto adottato a maggioranza degli Stati, Polonia e Ungheria hanno posto il veto su altre due misure necessarie per l’attuazione del Recovery Fund, le quali, al contrario, richiedono l’unanimità. L’impasse è stata risolta attraverso l’emanazione di una dichiarazione esplicativa sulle modalità di esercizio del provvedimento a tutela del principio dello “Stato di diritto”.
A questo punto, che cosa prevede il cronoprogramma per l’attuazione del Recovery Fund? Quali saranno i prossimi passi?
In primo luogo, vi è ancora un passaggio conclusivo per la definizione del quadro giuridico del Recovery Fund. In particolare, una delle decisioni che è stata “sbloccata” nei giorni scorsi è quella delle “risorse proprie”, cioè i finanziamenti forniti all’Unione per l’esercizio delle sue attività. Ai sensi dell’articolo 311 dei Trattati tale decisione per entrare in vigore deve essere approvata anche dai Parlamenti degli Stati membri. Fino a tale momento i fondi del Recovery non potranno essere attivati. Non è possibile prevedere quanto tempo i Parlamenti nazionali richiederanno per questo passaggio, si parla però di circa tre mesi.
In Italia si discute molto sulla creazione di una task force per la gestione dei fondi. Che cosa prevedono le regole europee in materia?
L’Unione è un’organizzazione fondamentale per la pace sul continente europeo, ma non tocca la piena sovranità degli Stati nei settori in cui il Trattato non sia titolare di specifiche competenze. In questo caso gli Stati rimangono sovrani e possono scegliere autonomamente la modalità con cui organizzare al loro interno la struttura per la definizione di progetti di cui si chiede il finanziamento, così come la struttura per l’esecuzione degli stessi.
L’Italia ha dimostrato in questi anni di non saper spendere per tempo i fondi Ue e sui soldi del Recovery Fund sono previsti vincoli di utilizzo. Che cosa succede in caso di ritardi o inadempienze nell’utilizzo delle risorse? Che tipo di “sorveglianza” scatta?
Il fondo è organizzato per differenti programmi, come già avevamo ricordato in una precedente intervista. L’Unione ha previsto di fornire ingenti fondi al fine di raggiungere specifici obiettivi europei. Per questo i fondi sono forniti agli Stati che siano interessati a raggiungere questi obiettivi. In teoria gli Stati non sono obbligati a presentare progetti e chiederne il finanziamento. In questo senso non esistono vincoli di utilizzo. Uno Stato partecipa solo se è interessato ad organizzare programmi per raggiungere queste finalità europee. A tal fine ciascuno deve presentare dei progetti che saranno valutati come coerenti con questi obiettivi e che concretamente possano essere realizzati. Questo per impedire la nota esperienza delle “cattedrali nel deserto”. All’interno di questa griglia regolamentare gli Stati hanno piena libertà di scegliere e presentare i loro progetti. Come tutti i programmi europei vi sono delle valutazioni periodiche dell’Unione per valutare lo stato di attuazione dei progetti per poi passare al pagamento delle singole tranche di finanziamenti.
(Marco Biscella)