La sanità pubblica non è solo quella dei grandi ospedali. C’è una rete di piccoli centri, gestiti da operatori privati, che operano in convenzione col servizio sanitario nazionale e portano l’assistenza ai pazienti fino al cuore della città. Ora però molte di queste strutture rischiano di perdere il riconoscimento delle Regioni. Se succedesse, si correrebbe il rischio di un intasamento delle liste d’attesa degli ospedali, di un aumento dei costi e di gravi disservizi per i cittadini. Nel Lazio lo scenario è particolarmente complicato, intasato dalle burocrazie del mastodontico sistema sanitario regionale. Cerchiamo di capire la situazione partendo dal Centro Medico Fisiokinesiterapico di Monteverde vecchio, una struttura che opera nel quartiere dal 1967 ma il cui futuro è ancora incerto.
Si chiama procedura di “accreditamento definitivo” ed è una faccenda delicata. «Il rapporto tra il servizio sanitario nazionale e le strutture che operano in convenzione passa per una autorizzazione all’esercizio», ci spiega Dario Pellegrini – responsabile del Centro di Monteverde, impegnato anche nel sindacato degli operatori sanitari privati (Anisap). Ogni struttura privata che voglia lavorare per conto del servizio pubblico deve documentare di rispettare alcuni requisiti. È un passaggio importante, una garanzia di qualità per i cittadini. Ad accertamenti completati, il paziente potrà servirsi di quella struttura privata come se fosse un ospedale pubblico, a spese dello Stato. Con alcuni vantaggi, dice Pellegrini.
«La rete di strutture presenti sul territorio non può essere sostituita, almeno se vogliamo continuare a mettere il paziente al centro dell’attenzione», sostiene il fisioterapista. «Molti pazienti hanno bisogno di terapie “flessibili”. Nel settore della fisioterapia alcuni trattamenti durano per mesi: come si può pensare di mandare il paziente in una maxi-struttura pubblica? Non si può certo chiedere al paziente di smettere di lavorare perché ogni giorno deve andare a curarsi in ospedale. Ognuno ha bisogno di un luogo vicino casa, oppure sulla strada che fa tutti i giorni per andare al lavoro; servono orari flessibili e no-stop, che sono difficili da garantire in una struttura pubblica».
Chiacchieriamo con Pellegrini alle sette passate; il Centro è aperto dalle 7.30 del mattino e i pazienti continueranno ad arrivare fino alle nove di sera, dodici mesi all’anno. L’idea di fondo è che la qualità di un servizio dipende anche dalla vicinanza concreta a chi ne ha bisogno. E Pellegrini ci fa vedere un progetto, che coinvolge il suo Centro, per portare direttamente a domicilio l’assistenza medica e riabilitativa.
Le nuove procedure di accreditamento rispondono a un bisogno di ammodernare il sistema sanitario nazionale, un processo avviato nel 2007 dal governo Prodi. Ma non tutte le Regioni si sono mosse con gli stessi tempi.
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Un’indagine del ministero della Salute mostra che a dicembre era riuscito ad ottenere il “riaccreditamento” il 54% delle strutture private italiane che ne avevano fatto richiesta. Un dato molto disomogeneo tra regione e regione: se nel Nord-Ovest quasi il 90% delle strutture ha raggiunto l’accreditamento definitivo, la percentuale crolla al 28% nelle regioni del Centro e al 24% del Sud.
«I termini per ottenere l’accreditamento definitivo sono scaduti a dicembre», racconta Pellegrini. Ma sono centinaia le strutture che ancora non hanno ricevuto il riconoscimento delle Asl, pur avendo già consegnato tutta la documentazione. «Al momento operiamo in condizione di accreditamento provvisorio, che è stata prorogata per altri tre mesi. È difficile però che la Regione riesca a completare le procedure entro marzo». Cosa accadrebbe se tutti quegli ambulatori privati perdessero la loro convenzione con sistema sanitario nazionale? «I pazienti dovrebbero riconfluire negli ospedali, con grossi disagi e problemi alle liste d’attesa». Oltretutto, aggiunge l’operatore sanitario, «eroghiamo servizi a costi stracciati, perché il tariffario nazionale che applichiamo è fermo da dieci anni. Ad appoggiarsi su di noi la Regione ci guadagna…».
Le quattro principali associazioni di categoria – Anisap, Federlab, Ursap e Confindustria sanità – si sono ricompattate per l’occasione, formando un comitato intersindacale. La trattativa tra l’amministrazione del Lazio e i sindacati è aperta; il tempo rimasto è poco e quattro settimane potrebbero non essere sufficienti.
(Lorenzo Biondi)