Sporgendosi dal belvedere di Sezze, provincia di Latina, si riesce a intravedere il Canale Mussolini. Chi ha letto l’omonimo libro di Pennacchi, evocherà immediatamente le suggestioni di una storia antica. La bonifica, la lunga e fertile pianura che si affaccia sul Tirreno, l’esodo dei migliaia di veneto-romagnoli trasferiti di peso a popolare una terra prima ad alta densità di zanzare e poco altro. E gli autoctoni dei monti Lepini, che mai hanno potuto tollerare i “polentoni” della pianura, venuti a rubargli terre ora fertili dopo che per secoli avevano conteso palmo a palmo un pezzetto d’orto alla palude.
Forse è per questo che, in una zona dove il centrodestra raggiunge normalmente percentuali vicine ai due terzi dell’elettorato, il comune di Sezze è da sempre considerato un covo di “comunisti”. Che detta oggi suona nel meno poetico ma più concreto “comune di centrosinistra”. Ma la politica, nei paesi dell’Agro Pontino, è considerata una cosa più di pagnotte e tabacco in sezione che non di interessi e appalti. E tutti sono pronti a riconoscere quel che di buono c’è in giro.
«Quando mi muovo per il paese tutti, anche i vecchietti, mi salutano e mi chiamano “mamma”. Ma si figuri! Nella mia lingua “mamma” significa “nonna”, e io mica sono così vecchia!». A parlare è Marie Terese Mukanitsindo, che dopo una vita passata in Ruanda da tanti anni vive nel nostro Paese, del quale ha acquisito la cittadinanza. Dopo un po’ di anni in Italia, ha pensato di voler aiutare le tante ragazze che dall’Africa, ma non solo, sbarcano sulle nostre coste. «Nel 2001 abbiamo fondato un’associazione. L’abbiamo chiamata Karibu», che in swaili significa “Benvenuto”. Ospitano ragazze madri, con i loro bambini. «Venticinque qui, più quindici a Rocca Gorga, un po’ più a sud di Sezze. «Con i loro bambini, ovviamente. Poi sa, qui noi diciamo venticinque, ma spazio per altre due o tre ragazze si trova sempre».
CONTINUA A LEGGERE L’ARTICOLO SU KARIBU CLICCANDO SULLA FRECCIA
Negli anni l’associazione ha partecipato a bandi ministeriali, ed è stata riconosciuta ufficialmente come centro di accoglienza dello Sprar. «Così nel 2004 abbiamo creato una cooperativa, facendoci anche aiutare da un bando della Comunità Europea». Circa quaranta ragazze, tutte con una storia difficilissima alle spalle. «Una volta arrivò qui da noi una ragazza del Gabon. Ogni volta che provavamo a sapere quale fosse la sua storia, dopo qualche minuto che iniziava a raccontarla, sveniva. Pian piano, portandola sempre in giro con me, sono riuscita a ricostruirla». Una fortuna, visto che la commissione che deve decidere se concedere protezione a chi chiede asilo basa gran parte del proprio giudizio sulla ricostruzione della vita del richiedente. «Alla commissione di Roma, però, sono molto comprensivi. Cercano di aiutare le persone, di comprenderne i bisogni».
Le ragazze arrivano da Marie Terese attraverso il ministero dell’Interno, che, tramite una banca dati costantemente aggiornata, rileva casi di richiedenti che hanno bisogno di prima accoglienza e li incrocia con le disponibilità dei centri. «Di norma una ragazza dovrebbe stare da noi sei mesi. Ma per intoppi burocratici e difficoltà d’inserimento può rimanere anche un anno».
Karibu non è la Caritas. «Nel senso che noi non forniamo solo vitto e alloggio, ma anche assistenza legale per le pratiche relative al riconoscimento del proprio status, assistenza psicologica. Poi cerchiamo di inserire le donne nel nostro tessuto sociale attraverso corsi di italiano, magari provando a trovarle un primo impiego, anche se non sarebbe nostro compito specifico». Primo inserimento che si rivela spesso fondamentale: «Consideri che generalmente un immigrato ha un aggancio qui, viene con le sue cose, povere cose, ma comunque ha una vaga idea di dove andare, cosa fare. Il rifugiato è uno che scappa, che si lascia tutto dietro, arriva qui, sulla spiaggia o i aeroporto, e non ha assolutamente nessun posto dove andare, nessun mezzo per sostenersi».
Marie Terese accoglie le persone non per un semplice supporto a districarsi fra le pratiche burocratiche o per dagli un boccone caldo, ma per «aiutarle a costruire un progetto di vita». Anche perché sono tanti i casi nei quali la difficoltà a farsi riconoscere lo status di rifugiato è tanta. «Una volta arrivò una ragazza dalla Russia. Era una laureata, attivista dei movimenti per i diritti civili, si era impelagata in qualche modo con la questione cecena. Il marito era stato incarcerato, la sorella uccisa, aveva lasciato il suo bambino in Russia ed era scappata. Per costringerla a tornare, avevano internato il suo bimbo in un istituto per malati di mente». Inutile spiegare che riconoscere ad una persona lo status di “rifugiato politico”, a causa di una persecuzione di una Paese a noi vicino come la Russia, avrebbe creato più di qualche problema dal punto di vista diplomatico. «Dopo tante peripezie siamo riusciti a farle riconoscere lo status di “aiuto umanitario”. Ancora oggi viene da noi, scambiamo quattro chiacchiere. Siamo amici insomma». Le stanze verdi, arancioni e azzurre dell’ufficio al centro di Sezze fanno a pugni con la tradizionale immagine dei luoghi di prima accoglienza, spesso considerati alla stregua di moderni lager.
CONTINUA A LEGGERE, CLICCA SULLA FRECCIA
Bastano poche parole a Marie Terere per confermare questa idea: «Una volta sono stata in un centro in provincia di Roma. Non dirò quale. Appena sono arrivata, mi sono messa a piangere. Letteralmente». Cosa permette una tale diversità? «Noi crediamo nella persona. Devono sapere che siamo loro compagni di strada. Lavoriamo “con”, non lavoriamo “per”, guardiamo a loro per chi sono, non perché sono dei poveracci da aiutare». Nonostante le mille difficoltà.
«Abbiamo voci vincolate dal ministero per tutte le spese. E a mala pena bastano per andare avanti». Un esempio sono le spese alimentari, per il cibo, in poche parole. «Abbiamo circa ventimila euro l’anno. Se lei calcola le persone che abbiamo e divide la cifra per i giorni dell’anno, scoprirà che abbiamo un budget giornaliero di 3,60 euro al giorno per ogni persona. Per colazione, pranzo e cena».
Arriva un foglio da firmare, bollette da pagare. E si coglie un lampo di stanchezza negli occhi di Marie Terese. «Ci sono mille cose da fare – ci spiega – ed è faticoso. Ma mi ero stufata di vedere tante di queste ragazze e di sentir dire “poverina”, e di vedere elargiti tanti consigli su cosa conveniva fare. Per me è fondamentale entrare in relazione con una persona, stabilirci un rapporto, conoscerla, diventarci amica. È questo il maggior guadagno del mio lavoro».
La cooperativa Karibu è a Sezze, provincia di Latina. Continua a portare avanti la propria attività anche grazie a donazioni di cibo, vestiario, materiale di cancelleria, generi per l’infanzia e di prima necessità. Per mettersi in contatto con Marie Terese, si può inviare una mail a coopkaribu[at]libero.it