«La mia storia comincia nel territorio e nella tradizione dei Castelli Romani, in cui mi sono sempre mosso alla ricerca di innovazione senza però mai perdere di vista le mie radici, nel tentativo di riportare quello che ho vissuto e sperimentato in una chiave diversa, forse più moderna e leggera». Lo chef Arcangelo Dandini ci racconta la sua storia che comincia alle porte di Roma e arriva nel cuore della capitale con il ristorante “L’Arcangelo”, nel quartiere Prati. «Da poco ho anche pubblicato un libro insieme alla mia amica Betta Bertozzi, “Memoria a mozzichi”, in cui faccio appunto un excursus storico sulla mia formazione, il cibo e la cucina romana vista dagli occhi di un cuoco, partendo da Apicio fino ad arrivare alla tradizione testaccina».
Cosa l’ha portata dai Castelli al centro di Roma?
Sono nato a Rocca Priora, dove la cucina è speculare a quella romana. Il mio percorso lavorativo comincia nei ristoranti di famiglia fino all’età di vent’anni, quando ho deciso di proseguire da solo, così mi sono spostato a Milano, dove ho lavorato per importanti ristoranti “stellati” (quelli che hanno ottenuto almeno una Stella Michelin, importante riconoscimento per i migliori ristoranti italiani ndr). Ho deciso poi di ritornare a Roma e cominciare questa nuova attività insieme a mio fratello.
Che tipo di cucina propone?
Tradizionale e “onirica”, come mi piace definirla. Provo a mescolare i sogni con il cibo, così nascono piatti come “La luce della luna”, a base di lumache abbinate a una salsa d’aglio alla meringa, oppure le animelle abbinate all’aringa e al Buondì Motta, la famosa merendina, che ho chiamato “Fiume”, in onore del Tevere. Propongo naturalmente anche la carbonara, l’amatriciana, la cacio e pepe e la gricia, però ogni tanto mi lascio trasportare volentieri da questo senso onirico che mi guida verso nuove interpretazioni.
Quindi come ha modificato la cucina della tradizione romana?
L’ho alleggerita ma non troppo, anche perché ritengo che sia inutile cambiare quello che è perfetto e che è stato messo a punto centinaia di anni. Si può al massimo contestualizzare, personalizzare e riportare a un gusto più “moderno”. I musicisti suonano con sette note, noi ne abbiamo centomila, quindi bisogna avere il coraggio di prendere tutti questi ingredienti e unirli in qualcosa che possa diventare storia.
Cos’è cambiato nei gusti e nelle abitudini dei romani?
Quando lavoravo con la mia famiglia, la maggior parte dei nostri clienti erano i romani che venivano per gustarsi le nostre specialità come le fettuccine fatte in casa, il pollo alla diavola e l’abbacchio. Poi tutto si è cominciato a spostare verso un altro tipo di cibo, che è il pesce, e non so quanto questo sia positivo. Sicuramente qualcosa della tradizione verace si è persa e la capitale si è allontanata da un certo tipo di alimentazione a cui ormai si riavvicina solo in modo folcloristico.
Come mai soprattutto le nuove generazioni conoscono sempre meno i tipici piatti della tradizione?
Perché a casa non si cucina più così, e si consumano sempre più prodotti surgelati o precotti. La cosa negativa è che non lo fa solo chi va di fretta, ma anche chi di tempo ne ha tanto, e questo porta a un inevitabile imbarbarimento e impoverimento culturale. Non si crea un collegamento con la memoria, quindi un bambino che a quattro anni mangia i cibi surgelati, da adulto ricorderà quelli.
Lei invece cosa cerca di fare con il suo ristorante?
Ho fatto della memoria il mio motore e con questo mi muovo nel presente, verso il futuro ma guardando sempre indietro. Non parlo solo dei ricordi, ma di quell’orgoglio che è anche la forza di Roma e dei romani. Cerco di portare questa memoria sulla mia tavola e comunicarla, non per educare ma per cercare di fare da tramite tra le generazioni più antiche e quelle attuali.
(Claudio Perlini)