Il 2023 è stato l’anno in cui sono emerse le criticità strutturali dell’economia cinese. La trappola del reddito medio, lo scoppio della bolla immobiliare, una dinamica demografica anemica, la deflazione e per ultimo le proiezioni preoccupanti sul debito hanno mostrato il vero volto di un’economia che ha cercato lo sviluppo a qualsiasi costo. Uno sforzo di dimensioni storiche di cui il governo cinese ha iniziato a pagare il conto e che dal punto di vista politico coincide con una radicale discontinuità nei confronti della tradizionale condivisione dei processi decisionali in favore di un forte accentramento attorno alla leadership di Xi Jinping. Il segnale inequivocabile del rallentamento della crescita cinese è stato il deficit di investimenti esteri, che ha raggiunto la quota di 11,8 miliardi di dollari nel trimestre che si è chiuso a settembre, mese in cui Goldman Sachs ha registrato un deflusso di capitali di 75 miliardi di dollari, una cifra mai registrata negli ultimi sette anni.
In pratica, per la prima volta gli investitori stranieri hanno ritirato più capitali di quanti ne abbiano allocati in Cina. Un dato di indubbio valore storico che segna inequivocabilmente la fine della fase attuale della globalizzazione caratterizzata da una fortissima e incessante interconnessione e interdipendenza dei mercati finanziari. A inizio dicembre Moody’s ha prodotto un outlook negativo sull’economia cinese, un downgrade giustificato dal fatto di prevedere un calo al 4% nel 2024 e 2025 e al 3,8% per il resto degli anni venti. L’agenzia di rating prevede che il calo si assesterà sul 3,5% entro il 2030.
Inoltre, hanno tenuto banco le previsioni sulle dinamiche del debito pubblico fatte dagli analisti del FMI che prevedono che esso dovrebbe raggiungere quasi il 150% del Pil nel 2027. È l’altra faccia della crescita cinese orientata all’export, che ha visto il governo cinese sussidiare massicciamente l’industria domestica. Una dinamica che ha permesso alla Cina di conquistare una posizione di vantaggio in tutti i settori strategici della manifattura del futuro che nel caso cinese ha raggiunto una eccezionale capacità produttiva, con cui USA e UE avranno serie difficoltà a competere.
Ad essere cinici, si potrebbe pensare a una strategia che ha subordinato qualsiasi razionalità economica ad una logica di potere che mira a conquistare la superiorità nei settori che sanciranno i vincitori della competizione in atto. Il 2024 ci darà le prime risposte circa lo stato di salute dell’economia cinese che si trova alle prese con una situazione profondamente ambigua in cui all’emersione delle criticità strutturali corrisponde un vantaggio strategico nella manifattura del futuro. La Storia ci fornisce tanti esempi di Paesi che hanno reindirizzato il proprio eccesso di capacità industriale verso lo sforzo bellico, ma al momento è più lecito chiedersi come reagirebbe l’economia cinese ad un inasprimento della guerra commerciale e a nuove politiche protezionistiche fatte dai Paesi occidentali.
Al momento, possiamo limitarci a prevedere un 2024 in cui il governo cinese cercherà di essere sempre più protagonista all’interno dell’arena delle relazioni internazionali. La Cina cercherà di difendere il vantaggio industriale e tecnologico raggiunto in alcuni settori chiave e al contempo proverà a mettere in sicurezza le catene logistiche che alimentano la propria manifattura. Ora che il mondo ha finalmente visto il vero volto dell’economia cinese è facile prevedere che il Dragone si mostrerà più aggressivo; un bluff che, attualmente, nessuno ha il coraggio o la voglia di andare a vedere.
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