C’era una volta, nella scuola di molti anni fa, l’assenza. L’assenza era quella singolare esperienza per la quale, se eri malato, non andavi a scuola. Ti concedevi il lusso di rimanere nel letto, dormendo della grossa. Una varicella a metà maggio poteva troncare il liceo venti giorni in anticipo, separarti dal Rocci e schiuderti l’intero Roland Garros. Non risultano futuri scompensi d’apprendimento.
Nel 2022, invece, mio figlio è malato; ergo: deve collegarsi. È un suo diritto. Da possibilità, la Dad è diventata automatismo. Tant’è che al primo starnuto la scuola, più che informata della malattia (ridotta a pleonasmo), viene contattata per l’ovvia richiesta della Dad. Se 100 ragazzi non stanno bene, potrebbe salirci dal cuore un certo dispiacere; se però li cataloghiamo come 100 collegati, trattasi soltanto di disagio organizzativo.
Sull’altare della virusfobia vanno immolate sedicenni positive al tampone del 3 gennaio e costrette a rientrare in classe il 2 febbraio, dopo 30 giorni di isolamento pseudomonacale; o tredicenni che marciscono un mese nel proprio loculo senza neppure aver contratto il Covid, prima per la sorella positiva, poi perché in palestra hanno sfiorato un presunto positivo o perché la ex fidanzata del bisnonno è raffreddata.
La psicosi non contempla eccezioni: il positivo è ipso facto bollato come infettivo, probabilmente radioattivo. Nulla sfugge al metaldetector della chat delle mamme, e perciò meglio girare alla larga dall’untore, e che non si azzardi a varcare il Rubicone della cameretta. Che dopo tre settimane di internamento avverta segnali di squilibrio mentale non importa: se scendesse le scale per affacciarsi alla luce del sole, al suo solo passaggio i condomini cadrebbero stecchiti e il portone si sgretolerebbe. Dunque rimanga segregato e prossimamente contatti uno psichiatra.
Tra il reale e il virtuale, si degenera nel surreale. Mentre i presenti si addestrano nella tuttora arcana pratica dell’autosorveglianza, in virtù di qualche sottigliezza giuridico-metafisica gli studenti malati risultano assenti sul registro però con obbligo di frequenza.
Domani, intanto, interrogazione programmata. La professoressa lo vergò a caratteri di fuoco su WhatsApp, prima di Natale. Ora non può mica disfare i suoi piani. Quod scripsi, scripsi. Come osservava Charles Péguy, quando il sistematico “ha torto, ha ragione di aver torto; ed è la realtà che, avendo ragione contro di lui, ha torto ad avere questa ragione”. Il giorno dopo insomma – non ci sono santi – tocca ai malati. Che non stanno bene, quindi dovrebbero non collegarsi. Ipotesi non contemplata. Oltretutto la classe li considererebbe egoisti. Febbre, mal di testa, mal di pancia, la realtà mette alle strette: ma è comunque lei ad avere torto. Alla vigilia dell’interrogazione programmata, nella testa della liceale spossata si insinua un dubbio kafkiano: “scusi prof, ma… cosa succede se domani, da assente, mi assento?!?”.
Fine del vetusto principio di non contraddizione, secondo cui assente = assente; presente = presente; assente ≠ presente. Ciaone Aristotele.
Appena fiuta sangue d’alunno, il criceto nella gabbia di fine quadrimestre sbava, riattivando il circuito mentale binario: positivo o negativo? in Dad o in presenza? ha il voto o non ha il voto? Non ricorda che, al di là delle sue determinazioni transitorie che lo rendono – poniamo – un negativo in presenza senza voto, costui sia nientemeno che… una persona. Che magari pensa, desidera, soffre, s’annoia.
Lo scrutinio è alle porte. Sei stato fuori tre settimane? Ora ti becchi dieci verifiche di fila. Finanche alle elementari non c’è scampo al patibolo del 31 gennaio: coperta addosso, tosse, tampone positivo… e verifica orale. Amarcord sanremesi in sottofondo: “E ancora ti chiamerò, positivo amoroso e dudù dadadad…”. L’arrapamento per i voti ha atrofizzato quell’apertura che potrebbe tradursi nella scandalosa domanda “come stai?”. Compromissione umana troppo umana.
2022, didattica mista, o meglio didattica digitale integrata, o meglio ancora: la “bastarda”. Irritante che a tale aberrazione si sia assuefatto il politico che non sa di cosa parla, ma ancora più avvilente è che, pur tra malcelati malumori, sia complice della “bastarda” chi in classe ci vive: insegnanti e studenti. Sarebbe mai possibile giocare una partita tra una squadra in campo con il pallone e un’altra a casa con la PlayStation? Ci è entrata nel sangue, la “bastarda”. Ci ha contagiati l’idea che un malato non abbia il diritto di stare male ma solo il dovere di collegarsi.
Descrizione secca della “bastarda”: 10 persone a casa, 15 in un’aula di 40 metri quadri, un computer portatile sulla cattedra. Un ragazzo parla non davanti ma dietro la fotocamera di un pc, non con un microfono ma con una mascherina, non in un ambiente insonorizzato ma con porte e finestre aperte, non vicino al pc ma a 5 metri di distanza. Non esiste possibilità tecnica al mondo per cui chi è a casa riesca a sentire qualcosa e men che meno a vedere. Perciò chi perpetua tale assurdità: parla da solo senza che mai nessun alunno intervenga; oppure interroga 4 persone e lascia dormire la restante popolazione; oppure non gliene importa nulla che i reietti non vedano e non sentano; oppure non ha la percezione elementare dell’acustica; oppure, oltre a non chiedere “come stai?”, non chiede neanche “si sente?”.
Mica è colpa nostra… Certo, ma cosa si può fare, intanto, se Omicron alza il dito medio davanti a Ffp2 e green pass e ci spacca le classi e non solo? Io faccio due lezioni: una la mattina per i presenti, un’altra in omaggio il pomeriggio solo per i confinati che possono e vogliono. È libera, gratuita e antisindacale, sacrifica la vita privata, eppure per una volta gli invisibili vengono presi sul serio. Non è una proposta universale, me ne rendo conto: dipende dal rapporto con una classe. Però esiste, e funziona.
Almeno, però, ripristiniamo il concetto di assenza, aboliamo la “bastarda”. L’assente si preoccupi solo di soffrire in santa pace, di quella bella sofferenza che piaceva al Troisi di Pensavo fosse amore. La presenza infatti non è legata alla stucchevole diatriba fra aula e Dad, ma dipende da quanto è in gioco l’io, entusiasta di esserci dentro o dispiaciuto di essere fuori. Se dovrò assentarmi, soltanto uno slancio del cuore – che una volta si concretizzava nella banalissima domanda “cosa avete fatto?” – mi farà sintonizzare con gli altri.
Stiamo assistendo invece alla progressiva scomparsa dell’io: sei insufficiente? Ti recupero. Sei assente? Ti collego. C’è sempre un trucco affinché la realtà sia un po’ meno realtà. È la scuola del non esserci mai fino in fondo, né nella salute né nella malattia. Un tempo si parlava di “scaldare la sedia”, ora diremmo “sovraccaricare la banda di connessione”. Guai ad avvertire l’amarezza di essersi persi qualcosa! La didattica mista elimina quest’ultimo attrito: non preoccuparti, non sarai assente mai.
Si potrebbe, invece, sentire la mancanza degli assenti, e andare sotto casa dell’alunna in quarantena, parlarle come Romeo a Giulietta, accompagnarli ogni giorno, non solo per la (fastidiosa?) incombenza del coordinatore, ma per una traboccante passione umana, collegarsi liberamente una sera con dieci alunni, e scoprire che non c’è confine tra raccontare di sé e raccontare dei due romanzi che hanno letto, e che se la scuola non sostiene chi vive in quarantena non serve a niente. Funziona proprio come il Covid: la positività del vivere si trasmette per contagio. Incontrando un tentativo più umano, meno lamentoso, più attento, più desideroso di affrontare la scuola, la fatica, la malattia, gli imprevisti. Anziché attendere tempi migliori, si può vivere a pieno questa condizione: ma serve ribellarsi all’isolamento, ci vogliono contatti stretti.
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