Lo sviluppo favorisce la salute?

Per medici che operano tra le moltitudini sofferenti del Terzo mondo, o tra i disagi e i malesseri delle condizioni di lavoro presenti anche alle nostre latitudini, quali noi siamo, è facile comprendere che la salute non è tanto (o almeno solo) legata allo sviluppo della medicina quanto (o almeno anche), e in misura determinante, allo sviluppo dell’intera società: sviluppo economico, sociale, tecnico-scientifico e culturale. È un mondo migliore, e non solo terapie più efficaci, ciò di cui abbiamo bisogno per stare bene.
Assumendo che vivere a lungo  rappresenti un’indicazione qualificante di salute, dello “stare bene”, è impressionante constatare quanto stretto sia il rapporto tra durata media della vita e sviluppo . L’indice di sviluppo Hdi (Human Development Index), utilizzato in figura 1 e 2, integra tre dimensioni del benessere della persona e della società – salario, istruzione e sanità – mentre la durata media esprime l’aspettativa di vita alla nascita, nei diversi periodi.



Figura 1. Andamento dell’indice di sviluppo Hdi in diverse aree del pianeta.

Figura 2. Andamento dell’aspettativa di vita nelle stesse aree, nello stesso periodo.

C’è una stretta associazione, un costante parallelo andamento dell’indice di salute e dell’indice di sviluppo, con un’immagine generale di miglioramento e due casi di chiaro peggioramento: la diminuzione della durata media di vita che ha accompagnato il temporaneo crollo dello sviluppo nell’ex Unione Sovietica e il permanente mancato (quando non invertito) sviluppo nell’Africa sub-sahariana (può essere utile notare che l’attuale durata media di vita in questa regione africana è simile a quella delle popolazioni di Inghilterra e Galles nel 1840). Un altro macroindicatore di salute, la mortalità dei bimbi sotto i cinque anni (figura 3), presenta una costante diminuzione in ogni area del pianeta, ma con grandi disparità, riflesso evidente di disparità nello sviluppo: il miglioramento in atto nei Paesi sottosviluppati è frutto prevalentemente di migliori condizioni igieniche, incluso l’accesso all’acqua potabile, della diffusione della immunizzazione contro le malattie infettive e di campagne di educazione delle madri. Guardando a noi, in Italia, possiamo constatare che la durata media della vita (che all’inizio del Novecento era di poco superiore ai quaranta anni) si sta ormai avvicinando agli ottantacinque anni per le donne e sta superando gli ottanta per gli uomini, con un guadagno, mediamente, di circa otto anni rispetto ai primi anni Settanta. Dal 1981 al 2001 la proporzione di ultrasessantacinquenni in Italia è passata dal 13% al 19% dell’intera popolazione , con una costante diminuzione della mortalità: si muore mediamente in età sempre più avanzata.



Figura 3. Numero di morti sotto i cinque anni di vita ogni mille nati vivi in diverse aree del pianeta.

Ciò che viene riflesso in questi dati di sopravvivenza/salute sono gli effetti del periodo di sviluppo obiettivamente straordinario che abbiamo attraversato a partire dall’ultimo dopoguerra. Sviluppo che ha interessato in maniera particolare la medicina: basti pensare che sono di questo periodo le scoperte di farmaci come antibiotici, vaccino antipolio, cortisone; di mezzi diagnostici quali endoscopia, Tac, risonanza magnetica; nuove tecniche chirurgiche e di rianimazione, trapianti d’organo, correzione di danni vascolari, etc. Nonostante ciò, è facile notare che non c’è meccanica consequenzialità tra progresso e salute. Quanti ritengono, e non sono pochi, che ci stiamo avviando verso una vita lunghissima e priva di malattie rimarranno delusi. Controlliamo sempre più le malattie e giungiamo sempre più anziani alla battaglia finale (agonia), ma sempre più profondo e diffuso appare il disagio nel vivere, anche tra i giovani e sani. Siamo meno malati di un tempo (e in realtà le malattie, soprattutto in alcuni archi di età, sono assai meno diffuse), ma continuano a crescere straordinariamente i consumi per la salute, preda come siamo di timori per i veri o supposti rischi che ci circondano e ossessivamente alla ricerca di una “forma” che non ci sembra mai di aver raggiunto. La medicina ha strumenti potenti e nominalmente efficaci come non mai, eppure cresce anche il senso di disagio, insoddisfazione e forse anche di impotenza negli operatori sanitari, mentre da parte dei malati sempre più diffuso è il ricorso a forme arcaiche o “alternative” di cura. Come se non bastasse, sembra che il costo economico di ciò che ci siamo conquistati non sia più sostenibile: come andare avanti? 



Salute e stare bene

Il rapporto salute-sviluppo appare dunque, nello stesso tempo, evidente e assai complesso, anche perché indicatori totalmente fedeli di salute (e forse anche di sviluppo) non sono facilmente reperibili. È chiaro, in ogni caso, che l’idea di salute cui si deve far riferimento non è esclusivamente di pertinenza medica. Ma è la stessa esperienza di salute a non essere percepita come tale: per stare bene non basta non avere malattie e, d’altra parte, si può stare bene in certe circostanze anche all’interno di una malattia. Il non stare bene può generare malattie, mentre non sempre la malattia causa un non stare bene. L’ Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha tentato di far proprio questo concetto fin dagli anni Quaranta, definendo la salute come «non semplicemente l’assenza di malattia, ma lo stato di completo benessere fisico, mentale e sociale». Tale definizione rischierebbe tuttavia di essere presuntuosamente illusoria qualora affidasse alla medicina il compito di ottenere quello «stato di completo benessere». Rischierebbe inoltre di ampliare a dismisura l’ambito di ciò che andrebbe considerato malattia se ne legasse la definizione alla mancanza di tale «stato di completo benessere». Un’altra definizione non esclusivamente medica di salute ribadita pigramente, se pur autorevolmente, è quella di «salute come diritto». Si tratta di un roboante nominalismo privo di riscontro nell’esperienza, che implica una falsa prospettiva e una infondata aspettativa, che porta a «elevare la mia salute al livello del tuo dovere» ,suggerendo implicitamente una irrealistica visione di malattia come mancata acquisizione o soddisfacimento di un diritto. Sembra più ragionevole un approccio come quello della Dottrina sociale della Chiesa quando parla del rispetto e della promozione integrale della persona e dei suoi diritti fondamentali, che passano attraverso la prestazione di servizi essenziali, quali alimentazione, abitazione, lavoro, educazione e accesso alla cultura, salute, libera circolazione delle informazioni e tutela della libertà religiosa . Diritto dunque ai servizi essenziali per la salute, non alla “salute”, che l’esperienza ci mostra piuttosto essere un dono di cui riusciamo a essere grati solo quando lo perdiamo.

La salute – come è stato detto giustamente – non ha prezzo. Però ha dei costi. Che la salute abbia dei costi dice la sua inevitabile relazione con la sfera economica, ma che non abbia prezzo ne indica il valore inestimabile per la persona nelle sue relazioni con la società. Ora, è questo secondo aspetto quello più importante da tener presente quando si discute di salute e progresso. Il progresso è tale se fa prevalere il bene della persona, perché la persona è la sola creatura della terra che Dio abbia voluta per se stessa dice laGaudium et spes, aggiungendo: «L’ordine sociale pertanto e il suo progresso debbono sempre lasciar prevalere il bene delle persone poiché l’ordine delle cose deve essere subordinato all’ordine delle persone e non l’inverso» [6]. Il vero sviluppo non può limitarsi alla moltiplicazione dei beni e dei servizi, cioè a ciò che si possiede, ma deve contribuire alla pienezza dell’essere dell’uomo. L’obiettivo dello sviluppo, secondo laPopulorum progressio, è la costruzione di «un mondo, in cui ogni uomo, senza esclusioni di razza, di religione, di nazionalità, possa vivere una vita pienamente umana» [7]. E Benedetto XVI nell’udienza generale del 16 agosto 2006 spiegava: «Il progresso può essere progresso vero solo se serve alla persona umana e se la persona umana stessa cresce; se non cresce solo il suo potere tecnico, ma cresce anche la sua capacità morale». È a un progresso così inteso – e non ridotto ai suoi aspetti tecnico-scientifici o economici soltanto – che la salute è strettamente legata.
Mancanza di salute e crescita: il caso Aids

D’altra parte, la mancanza di salute rappresenta un sicuro ostacolo allo sviluppo. Ci sono interi Paesi che trovano ostacoli al proprio sviluppo a causa della diffusione di malattie e alla mancanza di sanità. Il quadro emerge vivido scorrendo i dati forniti dallo Human Development Report 2005 dell’Undp (United Nations Development Programme) su risorse investite per la salute, indicatori di accesso ai servizi, disponibilità di tali servizi – dalle vaccinazioni all’assistenza ai bambini con diarrea (un vero e proprio flagello), all’assistenza qualificata al parto e alla presenza di medici – e su nutrizione, igiene, risorse d’acqua potabile. Il caso più clamoroso e dolorosamente istruttivo viene dall’Africa sub-sahariana dove, accanto a immobilità economica e mancata educazione e formazione, sono l’infezione da virus Hiv e la sua conseguenza clinica Aids ad aver provocato un’inversione dello sviluppo, secondo l’indice Hdi, tra il 1980 ed il 2003. Il Sud Africa ha perso 35 posizioni, lo Zimbabwe 23, il Botswana 21. È un fenomeno descritto come erosione dei beni e delle risorse delle persone e della società. Per chi è affetto diminuiscono le entrate e si profilano costi per coprire i quali vengono venduti i pochi beni posseduti (terra, casa, animali, etc.) con un devastante circolo vizioso. Le scarse risorse e strutture sanitarie sono a loro volta sequestrate da questo drammatico bisogno a scapito di altri. Ed è una perdita di vitali risorse umane: lo Zambia sta perdendo i due terzi dei propri maestri qualificati. Se si considera anche la diffusione di malaria e tubercolosi accanto a Hiv/Aids in quest’area del mondo risulta drammaticamente evidente quanto la mancanza di salute rappresenti un reale impedimento alla crescita e allo sviluppo sul piano educativo, economico e sociale; anzi come possa addirittura invertire il corso dello sviluppo ed erodere il guadagno di attesa di vita nei Paesi maggiormente affetti.

Secondo Unaids [8], dalla identificazione dei primi casi in California nel 1981, si stimano in 65 milioni le persone che in tutto il mondo hanno contratto l’infezione da Hiv e in 25 milioni i morti per le sue conseguenze. Solo nel 2005 i morti per Aids sono stati 2,8 milioni, i nuovi infetti 4,1 milioni e il numero di persone che convivono con il virus 38,6 milioni. Le aree del mondo più colpite sono Africa sub-sahariana e Paesi caraibici, dove l’infezione interessa l’intera popolazione attraverso una trasmissione prevalentemente eterosessuale. In altri Paesi sembrano particolarmente a rischio, invece, settori particolari della popolazione quali uomini omosessuali, utilizzatori di droga per vena e prostitute/i.
Il panorama sub-sahariano è impressionante. In questo 10% della popolazione mondiale si concentra il 64% dei casi di infezione da Hiv. La proporzione di popolazione infetta supera pressoché costantemente il 10% e in alcuni casi il 20%. Il trattamento dell’infezione è costoso, ma efficace. Programmi internazionali hanno cercato di garantire nei Paesi più poveri la terapia anti-retrovirale (Art) ad almeno il 50% di quanti ne necessitano entro il 2005, ma solo il 20% è stato raggiunto; importanti progressi, invece, sono stati compiuti nella prevenzione e profilassi della trasmissione materno-fetale. Negli ultimi anni, in alcuni di questi Paesi sub-sahariani è stato notato un declino, per molti inatteso, della frequenza di Hiv negli adulti. È il caso dell’Uganda che, secondo dati Onu, ha avuto ultimamente uno sviluppo notevole anche se fragile e ineguale. Il suo punteggio Hdi si è incrementato, al pari di Cina e Bangladesh, di circa il 20% a partire dal 1990. Questo dato di sviluppo potrebbe di per sé spiegare l’andamento migliorativo della epidemia di Hiv/Aids. Ma c’è un altro dato di rilievo, comune ad altri Paesi quali Zambia, Senegal, Kenya, Zimbabwe, Giamaica, Thailandia e Repubblica Dominicana, che ugualmente hanno mostrato segni di declino dell’epidemia, ed è il tipo di politica adottata per la lotta a Hiv/Aids. Come ha spiegato Edward Green, dell’Harvard Center for Population and Development Studies, i più rilevanti risultati in tema di prevenzione dell’Aids sono stati ottenuti nei Paesi che hanno puntato non solo sulla diffusione di preservativi, ma anche su programmi di Primary Behavior Change, attraverso formazione ed educazione. Il primo tipo di approccio si è dimostrato efficace nei gruppi ad alto rischio nei Paesi occidentali, ma non nei Paesi dove il rischio è diffuso nell’intera popolazione [9].
La possibile inversione di tendenza: una lezione dai Paesi in via di sviluppo

In quei Paesi si è dimostrato vincente il modello di prevenzione originalmente sviluppato in Africa. È basato su tre principi, indicati dalle lettere A, B e C. A, ovvero Abstain, astieniti da rapporti sessuali in età molto giovane, non iniziare un’attività sessuale precocemente; B, come Be faithful, ovvero sii fedele, non cambiare continuamente partner; C, ovvero usa il Condom in modo corretto e continuo. Nel 1991 durante la conferenza internazionale sull’Aids a Firenze il presidente ugandese Museveni spiegava così la scelta politica del suo Paese: «Credo che la migliore risposta alla minaccia posta dall’Aids sia riaffermare pubblicamente e con forza la stima e il rispetto che ogni persona deve al suo prossimo. I giovani devono imparare le virtù del controllo di sé, della non immediatezza del piacere e talora del sacrificio». E in Uganda la frequenza di infezioni Hiv nella popolazione è scesa dal 15% nel 1991 al 5% nel 2001, mentre nell’intera Africa sub-sahariana, secondo Unaids, la frequenza media di infezione Hiv nella popolazione si va riducendo: da 7,5% nel 2003 a 7,2% nel 2005. L’approccio ABC è stato considerato con interesse negli ultimi anni e discusso su riviste internazionali autorevoli, incluse «The Lancet», «Science», «British Medical Journal» . In questa discussione è stata messa in luce l’importanza di tutti e tre gli aspetti, nel loro insieme, ma anche la loro diversa rilevanza ed efficacia a seconda dei diversi segmenti o tipi di popolazione: tenendo conto dei risultati raggiunti, per i giovani la misura più rilevante sembra la A, per gli adulti la B, mentre la C ha la maggior rilevanza nei gruppi ad alto rischio, data la loro avvertenza e coscienza del problema, o comunque nei Paesi con epidemie concentrate e non diffuse all’intera popolazione (per esempio Cambogia e Thailandia). L’impatto del programma di prevenzione ABC risente naturalmente di molte condizioni di contesto quali povertà, mancanza di educazione, instabilità residenziale, migrazione forzata, ineguaglianza di diritti tra uomini e donne, etc. Molti Paesi in Africa soffrono di tali condizioni, e ciò rende ancora più importante non coltivare l’illusione che la questione si risolva soltanto con una distribuzione capillare di preservativi: il loro uso corretto e continuo ha ben poche applicazioni in situazioni di tale drammaticità. In ogni caso, i 700 milioni di abitanti dell’Africa sub-sahariana stanno ricevendo annualmente oltre 700 milioni di preservativi, ma la curva epidemica dell’infezione ha cominciato a subire un calo solo quando si è messo in atto un programma centrato sulla responsabilità della persona, sulla sua capacità di riconoscere il bene, sulla leale e simpatetica considerazione delle condizioni particolari nelle quali il programma andava applicato.

Il fenomeno Aids si è manifestato con quattro principali ondate, come è stato di recente ricordato [11]. La prima è stata l’ondata dell’infezione che ha progressivamente colpito settori crescenti della popolazione in tutto il mondo fino ai 60 milioni attualmente stimati; la seconda si è presentata con un pesante tributo di morti (più di 25 milioni finora), data l’alta letalità della malattia e la mancanza nella prima fase dell’epidemia di farmaci efficaci; la terza ondata, particolarmente a carico dei Paesi del Terzo mondo, è stata quella dei bimbi, infetti e non infetti, orfani a causa di Aids. Ora la sfida è riuscire a rendere disponibili trattamenti anti-retrovirali alle persone che ne necessitano: uno solo (o due, secondo le stime) su dieci in Africa, e uno solo su sette in Asia lo stanno ricevendo. Questa sfida non va condotta senza tenere presente, come si è rischiato di fare, tutti i fattori in gioco, a cominciare dal contesto e da chi lo abita. L’Occidente si sta impegnando a fornire all’Africa farmaci e condom. È questo il segno di un impegno concreto o di un disimpegno? È il modo efficace di aiutare la soluzione del loro problema o di un nostro problema? È sufficiente occuparsi del virus e non delle condizioni sociali, culturali, economiche, di vita quotidiana, nelle quali il virus prospera? L’esperienza, anche scientifica, sembra dire di no.
A quali condizioni lo sviluppo produce salute

Abbiamo precedentemente notato come anche il più evidente e clamoroso sviluppo di una società non comporti un’automatica produzione di salute, anche quando porti a una netta diminuzione delle malattie e a una vita più lunga. Nella esperienza dell’Aids nei Paesi del Terzo mondo c’è probabilmente qualcosa da imparare a questo riguardo.

La prima questione è che lo sviluppo produce salute non quando riversa sul pubblico i suoi prodotti tecnico-scientifici, per quanto avanzati, ma quando quello sviluppo ha un popolo, e non una casta (sia essa scientifica, economica o politica), come protagonista. Un popolo, cioè persone portatrici di una storia e di un ideale di bene. Le “moltitudini” sono artificiali, i popoli sono reali. C’è, a questo proposito, una recente tagliente affermazione del pur controverso presidente del Sud Africa, Thabo Mbeki: «È ovvio che, qualunque sia la lezione che dovremmo o potremmo trarre dall’Occidente a proposito della grave questione dell’Aids, la sua semplice imposizione al mondo africano sarebbe assurda e illogica».
La seconda lezione è che ci si deve basare sull’evidenza, e non solo sull’applicazione di principi ritenuti a priori efficaci. Di ciò che è successo in Africa con il programma ABC ben poco si è detto e tantissimo si è taciuto. È comprensibile: i punti B e C hanno ben pochi vantaggi economici da portare alle grandi corporate. Ma c’è dell’altro. Ed è l’atteggiamento di esclusione dalle dinamiche dello sviluppo di fattori e protagonisti non “abilitati”. Cosa può venire di realmente utile in campo medico-sociale da Paesi ancora in via di sviluppo, da culture “popolari”, non ossequienti alla vulgata dominante? Come può essere credibile un approccio basato su qualcosa di diverso da condom e farmaci? Eppure, dovremmo essere in tempi di evidence-based medicine, cioè di sviluppo e diffusione di pratiche e di misure di prevenzione e terapia sulla base dell’evidenza della loro efficacia non a priori, ma in specifici contesti.
La terza caratteristica da considerare con attenzione è che si è trattato di un approccio rivolto alla persona e alla sua responsabilità, non alle masse. Un approccio che della persona coltiva e valorizza la capacità di riconoscere il bene, per sé anzitutto e per la società in cui vive, e di agire e costruire coerentemente a esso. Sfortunatamente, invece, il giudizio più diffuso è che l’Aids trovi facile terreno nel fatalismo endemico degli africani, e che perciò la lotta alla malattia sia essenzialmente un dovere morale dei governi occidentali. Questo atteggiamento è non soltanto odioso, ma anche inefficace, come il programma ABC ha messo in luce. L’efficacia è inscindibilmente connessa alla valorizzazione della responsabilità, cioè alla capacità di diventare protagonisti della ricerca e della realizzazione, anche in campo sociale, di quel bene che urge nel profondo di ciascuno.
Il programma ABC ha avuto inaspettatamente (per molti) successo proprio perché legato alla vita dei popoli dove si è svolto, sostenuto dalle loro risorse (una concezione del vivere, anzitutto), adeguato al contesto di applicazione e capace di rispettare i diritti umani nel senso più profondo: le attese e i desideri presenti nei loro cuori.
Sottolineare tali aspetti diventa tanto più importante oggi, quando il dibattito sullo sviluppo e sulla efficacia e sostenibilità di vari suoi modelli è più vivo che mai. Per esempio, Bjørn Lomborg, già attivista di Greenpeace e autore de L’ambientalista scettico [12], ha fondato nel 2004 un forum chiamato Copenhagen Consensus, che raccoglie illustri esperti di dinamiche di sviluppo, tra cui numerosi Nobel. Questo forum condivide con altri la preoccupazione per la serietà dei problemi che il pianeta sta vivendo, ma se ne distacca per il tipo di approccio proposto. È stata per esempio stilata una lista di priorità da affrontare per la salvezza del pianeta, tenendo conto del bilancio tra costi e benefici. Bene, al primo posto figura il controllo dell’infezione da Hiv; al quarto il controllo della malaria; al sesto un altro fattore strettamente connesso alla salute, l’approvvigionamento d’acqua. Una prospettiva davvero interessante. A patto che si considerino le reali condizioni alle quali lo sviluppo produce salute; e viceversa.

1 Può essere utile ricordare che non è vero che la vita dell’uomo si sta “allungando”: ciò che sta avvenendo è che molte più persone raggiungono età che in passato erano raggiunte da pochi.
2 K. Watkins (Editor), Human Development Report 2005,United Nations Development Programme (Undp), New York 2005, pp. 18-39.
3 Non è qui il luogo ove commentare il valore negativo per lo sviluppo del nostro Paese di altri indicatori demografici quali un tasso di fertilità retrocesso da 2,3 nel 1970-75 a 1,3 nel 2000-05 e una percentuale di popolazione sotto i 15 anni in continua diminuzione, per il 2015 prevista al 13,2%, uno dei valori più bassi al mondo.
4 G. Meotti, La verità degli esseri umani, «Il Foglio», 23 agosto 2006.
5 Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa,

Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2004, n. 166.
6 Concilio Vaticano II, Costituzione Pastorale «Gaudium et spes» sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Roma 7 dicembre 1965.
7 Paulus P.P. VI, Populorum progressio, Roma 26 marzo 1967, n. 47., Unaids, Geneva 2006.
8 Joint United Nations Programme on Hiv/Aids, 2006 Report on the Global AIDs Epidemic
9 E.C. Green, Rethinking Aids Prevention: Learning from Successes in Developing Countries. Praeger Publishers, Westport 2003.
10 Ricordiamo di seguito solo i principali articoli comparsi su riviste internazionali peer reviewed:S. Okware et al., Revisiting the ABC strategy: HIV prevention in Uganda in the era of antiretroviral therapy, «Postgraduate Medical Journal» 2005, 81:625-8; D.H. Halperin et al., The time has come for common ground on preventing sexual transmission of HIV, «Lancet»2004, 364:1913-5; J.D. Shelton et al., Partner reduction is crucial for balanced “ABC” approach to HIV prevention, «British Medical Journal» 2004, 328:891-3; R.L. Stoneburner, D. Low-Beer, Population-level HIV declines and behavioral risk avoidance in Uganda, «Science» 2004, 306:1477; J. Cohen, Ground zero: Aids research in Africa, «Science» 2000, 288:2150-3.
11 F. Ciantia, The Greatest Tsunami, «J Medic Person» 2006, 4:5-6.
12 B. Lomborg, L’ambientalista scettico, Mondadori, Milano 2003.