La riduzione “areligiosa” del Natale è semplice e nota: sentirsi tutti più buoni, e scambiarsi regali.
La stessa cosa non vale per la Pasqua; qui il giochetto non riesce. Croce, morte, risurrezione: qualcosa di veramente ostico per il pensiero umano. Quella incredibile sofferenza del giusto, dell’innocente, è dura da metabolizzare. E soprattutto torna strana quella paroletta che difficilmente riesce a fare breccia nell’animo umano: il perdono. Che la propria sofferenza faccia giustizia del male altrui è inimmaginabile all’uomo.
Una qualche idea più precisa di questo, una faticosa approssimazione al traguardo del perdono può però più facilmente toccare chi abbia vissuto una grande ingiustizia nella vita, un grande e inspiegabile dolore provocato da un male incomprensibile. Gemma Capra, la “vedova Calabresi”, questo dolore e questa ingiustizia le conosce bene, e le ha sperimentate ben presto: a venticinque anni, madre di due bambini, un altro in arrivo, e un marito ucciso per strada, come un brigante.
Signora Gemma, con questa esperienza nel cuore che idea ci si può fare del perdono?
Guardi, del perdono ho sentito parlare molto, e quasi sempre male. Perché spesso si pensa di poter ragionare e parlare di perdono senza però averlo nel cuore. Il perdono è un cammino lungo, ed è assurdo – come spesso fanno certi giornalisti – chiedere, a breve distanza da una tragedia, se uno ha perdonato. In quel momento si può rispondere qualunque cosa, in positivo o in negativo, ma non si può possedere il significato di quell’affermazione.
Allora proviamo ad andare al fondo di questa idea di perdono, soprattutto adesso, con la Pasqua alle porte…
Le ricordo un fatto significativo, che può servire. Quando fu ucciso mio marito, mia madre pensò di mettere come necrologio la frase che Gesù disse poco prima di morire: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Io, devo dire la verità, allora non sarei stata capace di dire una frase di questo genere; però l’ho accettata. Dopo anni ci ho ripensato, e mi sono detta: com’è possibile che Gesù, che è figlio di Dio e che è portatore di tutto il messaggio di pace che conosciamo, non abbia perdonato direttamente Lui le persone che lo stavano uccidendo? Poteva: perché non l’ha fatto? Mi sono data questa risposta: Lui è Dio, ma è anche uomo, e come uomo sentiva quanto sarebbe stato difficile per noi, uomini come Lui, di fronte a tanto dolore, poter perdonare. Però ci ha indicato la strada: chiedere a Dio di farlo in vece nostra, lasciando a noi il tempo del cammino. Allora io in questo cammino mi sono addentrata. Ecco la spiegazione che io mi do, ed è una cosa che rasserena, e che col tempo aiuta.
In che modo il tempo può far maturare questa profondità d’animo?
Con la fede, e la preghiera. Io ho avuto il dono della fede in quell’occasione, perché ho sentito realmente un aiuto dall’esterno, un aiuto che a venticinque anni, incinta del terzo figlio, mi sarebbe stato impossibile. Ho sentito che non ero sola. La fede l’ho ricevuta proprio come dono, in quel momento. Certo, ero già credente, ero per così dire disponibile a questo. Però lì ho avvertito una forza che non era mia. Naturalmente in seguito ho anche sofferto terribilmente; ma non ho mai pensato che la vita non valesse la pena di essere vissuta, che non avesse un significato. Questa forza che ho sentito, come se Dio fosse venuto direttamente in mio aiuto, mi ha fatto subito fare due scelte: educare i miei figli alla voglia di vivere, e non educarli mai all’odio e alla vendetta. L’odio, infatti, ti divora tutto e non ti permette di gioire di niente. Lasciare spazio a questo sentimento sarebbe stata una tragedia in più.
Ma in qualche istante l’odio l’ha provato?
No, odio è una parola troppo grossa. Rabbia sì, ed è una cosa diversa. Perché l’odio è desiderare il male dell’altra persona. Questo lo insegnavo a scuola ai miei alunni, dicendo loro: «quando dite “ti odio” state attenti, perché significa desiderare che accada qualcosa di brutto», quindi è una cosa enorme. Però la rabbia sì, capita di provarla; puoi anche intraprendere un cammino, ma poi ci sono eventi, frasi, articoli che ti fanno tornare indietro. Ma sapere che questo è il cammino giusto, che qualcuno l’ha già fatto per te, ti aiuta. Sono in questo cammino, e in questa prospettiva. Posso dire, in questo, di avere già perdonato Leonardo Marino, che ha confessato l’omicidio, ha sofferto moltissimo, e ha chiesto perdono. Più difficile farlo nei confronti di chi il perdono non lo vuole e non lo chiede.
Quel clima di odio che ha portato all’assassinio di suo marito è ora finito, o ne vede ancora strascichi e propaggini?
Può succedere anche ora, come accadeva allora, che si accetti la violenza perché trascinati dal gruppo. Allora come oggi certe violenze, da soli, non verrebbero commesse. Questa è una cosa che io cerco sempre di raccomandare ai giovani: la violenza è sempre tale, e l’essere con altri non toglie responsabilità. E poi cerco di insegnare a non accettare mai il “sentito dire”. All’epoca fu così, sia per i ragazzi qualunque, sia per i giornalisti e gli intellettuali. Dobbiamo invece avere un pensiero critico, libero, e non accettare quello che ci danno gli altri come pacchetto già precostituito. Coloro che hanno ucciso mio marito hanno giocato sulla strategia di creare il mostro, per avere il consenso; e una bugia detta una volta è solo una bugia, ma detta mille volte diventa una verità. O quanto meno insinua il dubbio. L’errore che fanno molti, anche oggi, è di lasciarsi trascinare da questi dubbi indotti.
Un’ultima cosa: oggi, venerdì santo, ci sono i funerali delle vittime del terremoto in Abruzzo. Anche queste sono morti che potremmo definire “ingiuste”. Che riflessione le suscita questo evento?
Io non mi sono mai sentita di dire a Dio: “ma perché, perché proprio a me?” Non ho mai avuto, cioè, il sospetto o il dubbio di avere a che fare con un Dio ingiusto. C’è il male dell’uomo, e c’è il male della natura, delle calamità. E io per queste cose non ci dormo la notte, e prego sempre, per i rapiti, per gli uccisi, per le vittime di queste tragedie. Pregando sento molto la fratellanza con loro nel dolore. È questo che dovremmo fare, e mai abituarci, mai rassegnarci. Il rischio è quello di accettare passivamente il fatto che queste cose siano parte della vita. Invece no, dobbiamo abituarci a scandalizzarci, per il male, e a soffrire, per le tragedie. Questo soffrire insieme permette di sentire la fratellanza, e permette di pregare, di sentirci vicino, e quindi di aiutarci anche concretamente.
(Rossano Salini)