Un focolaio di Covid-19 è stato scoperto ieri a Pechino nel più grande mercato di generi alimentari della capitale cinese. Le autorità hanno chiuso il mercato e annunciato il lockdown di numerosi settori interessati. “È subito ritornata la paura, anche perché Pechino è il centro istituzionale del paese, dove vivono i leader” ci dice Francesco Sisci, sinologo e giornalista, già corrispondente dalla Cina per La Stampa, editorialista del Sole 24 Ore e di Asia Times. L’unica soluzione, e questo vale anche per l’Italia, è tenersi pronti.
Che cosa è successo esattamente?
È stato scoperto un nuovo focolaio di contagi, attivi e non attivi, in un mercato delle carni a Pechino ovest e dopo 55 giorni in cui la capitale era senza malati l’allarme è tornato a livello 3, con rigide forme di chiusura, anche se per ora la situazione non appare riconducibile a quella di gennaio, quando era scoppiata l’epidemia a Wuhan. Ma è ritornata la paura, anche perché Pechino è il centro istituzionale del paese, dove vivono i leader.
Che cosa ci dice questo improvviso riaccendersi del virus nientemeno che nella capitale cinese?
Dimostra che la malattia è dura da eliminare. La zona del focolaio è fuori dai circoli degli stranieri, si tratta di un mercato di beni alimentari. Recentemente, per riavviare l’economia, provata dai mesi di quarantena, il governo ha permesso il ritorno dei piccoli commercianti, e quindi c’è stata una grande ondata di persone dalle province e dalle campagne.
Il focolaio potrebbe essere collegato a questo?
Sì, potrebbe. In questo caso, indicherebbe che nelle campagne continua a esserci la malattia e che lì la situazione rimane incerta se non sconosciuta.
Può essere più preciso?
Secondo i dati ufficiali nelle zone rurali abitano ancora oltre 500 milioni di cinesi, sparsi per decine di migliaia di villaggi, dove le strutture sanitarie sono poche o nulle, quindi il rischio vero potrebbe essere ancora lì.
Il governo pensa di intervenire nelle campagne, che come ci aveva detto lei stesso, permangono in molti casi in una situazione di grave condizione igienica e sociale?
Intervenire nelle campagne è molto difficile. Non si possono tenere chiuse indefinitamente, perché ormai la loro vita economica dipende dalle città e quindi significherebbe condannarle a una povertà peggiore di quella attuale.
Secondo quanto riportato dall’Agi, saranno effettuati test su 10mila persone e oltre alle chiusure sono scattate migliaia di ispezioni su prodotti di ogni tipo. Eppure i contagi effettivi dichiarati sono pochi: 11, secondo le autorità.
Rendiamoci conto di quello di cui si sta parlando: qualche decina di casi a Pechino, una megalopoli che tra residenti e non ospita 30 milioni di abitanti, è nulla. Certo, i dati potrebbero essere parziali o falsi. Io credo però che potrebbero anche essere veri, e l’allarme allora dimostra che Pechino è spaventata dal ritorno dell’epidemia. Tipicamente la Cina fa così: passa dall’ignorare una minaccia per molto tempo all’attivarsi in maniera radicale.
È una scelta?
Diciamo che il Paese non sa gestire una normalità: o è troppo rilassato, o troppo rigido. In questo caso, il ritorno dell’allarme duro per pochi casi dimostra il senso di forte allarme nella leadership, e che anche psicologicamente la Cina non è guarita dalla paura dell’epidemia.
I costi economici?
Potrebbero essere gravi, perché allarmi del genere potrebbero tornare in futuro a macchia di leopardo in tutto il paese, se nelle campagne l’epidemia appunto continua. Forse questo dice qualcosa anche all’Italia.
Che cosa, secondo lei?
È difficile che prima del vaccino o di una cura si possa tornare davvero a una vita normale, e quindi bisogna tenere alto il livello di guardia per gestire ritorni di fiamma della malattia. D’altro canto lì dove bisogna operare con urgenza ed efficienza è l’economia, perché la depressione non moltiplichi all’infinito i danni dell’epidemia.
Cosa dicono i dati cinesi?
La Cina, secondo le previsioni oggi, dovrebbe avere la decrescita economica “meno peggiore” del mondo, con “appena” un -2,6%. Questo è stato possibile perché certe industrie legate al medicale hanno dato forniture a tutto il mondo. Quindi la via per facilitare l’uscita della crisi è stata quasi automatica per la Cina. Per l’Italia invece è stato e appare tutto più difficile.